Daniele Beghè, “Chicane” (Avagliano, 2024)

Nota di Silvia Patrizio

 

[…] Quando le cose non sono semplici, non sono chiare, pretendere la chiarezza, la semplificazione a tutti i costi, è faciloneria, e proprio questa pretesa obbliga i discorsi a diventare generici, cioè menzogneri. Invece lo sforzo di cercare di pensare e d’esprimersi con la massima precisione possibile proprio di fronte alle cose più complesse è l’unico atteggiamento onesto e utile.

[Italo Calvino – Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società]

 

 

 

Esiste un famoso detto zen che avverte: «prima di praticare lo Zen, le montagne mi sembravano montagne, e i fiumi mi sembravano fiumi. Da quando pratico lo Zen, vedo che i fiumi non sono più fiumi e le montagne non sono più montagne. Ma da quando ho raggiunto l’illuminazione, le montagne sono di nuovo montagne e i fiumi di nuovo fiumi».

 

Non si parla certo di pratiche zen tra la pagine di Chicane, ultimo libro di Daniele Beghè edito da Avagliano Poesia (2024), né della ricerca sommaria di spiritualità: l’architetto, semmai, sembra comparire più per scompaginare le carte che per restituire armonia all’insieme. Ciò che stupisce dello sguardo di Beghè è l’interesse per le «storie minime», «i piccoli episodi del tirare avanti» apparentemente marginali finché non vivificati dal riflettore dei suoi versi. Colpisce l’attenzione per tutti i «volti di vite spostate / da riorientare», i personaggi secondari che abitano una vita e «si fanno madri, sponde, esempi» per «ognuno di noi nelle sue varie posture».

 

Ecco che, allora, le parole del detto zen mi sembra possano dare una direzione allo sguardo di noi lettori: ci insegnano quella obliquità di visione che permette di cogliere ciò che è da sempre sotto i nostri occhi ma che gli incagli di una quotidianità troppo rapida, fagocitante, relegano alla rimozione approssimativa dell’indifferenza, quando non della mistificazione. Questa attenzione, che traccia una continuità con le Rosette (Arcipelagoitaca Editore, 2021) e con tutta l’opera poetica dell’autore, è in grado di catturare e restituire in altorilievo perfino la più insignificante «abitudine a bordo strada».

 

Nel paradosso degli ingorghi, dei «lunatici vagabondaggi», del «via vai / delle scale mobili» in cui, fin dal primo Rettilineo siamo gettati, echeggia un’immobilità temporale e spaziale che sembra frantumare il turbinio disarmonico della vita urbana. Dunque il «braccio che gira in tondo di una gru», la «ruota dentata» che «corre / sull’orologio dell’antica torre», tutti gli spazi di convivenza in cui «il flusso riprende regolare» ma «più piano», diventano metafore di uno sguardo più consapevole e le chicanes assumono la forma di «luoghi reali e metaforici» che «impongono lentezza», come ben osserva Daniela Marcheschi. Se rallentare è il verbo della poesia, nelle pagine di Beghè l’esigenza di muoversi in controtempo diviene strategia di difesa della stessa dignità umana, scavalcata dall’ingiustizia frantumante del consumismo e del capitalismo sfrenati. E’ in questi territori di resistenza, dove l’occhio disincantato del poeta può indugiare con ancora più meticolosità nella descrizione dell’attimo, che si spalanca, a partire dal dettaglio che frana, l’universo intero.

 

Il mondo pare, così, dividersi tra chi si ostina a voltarsi dall’altra parte, rimanendo complice di un sistema saturo e saturante, e chi, invece, prova a vedere, cercando «un varco nel muro del sistema» per non finirne stritolato, conservando con tenacia il senso etico della cura. Libertà e cura delimitano una dimensione aperta in cui il poeta, ma verrebbe da allargare la considerazione all’intero genere umano, riesce a farsi carico, con delicatezza e ironia, dell’angoscia che ci accomuna, come uno zaino che «pesa sulle spalle» e a cui non si può sfuggire «per quanto allunghiamo il passo». L’incantesimo laico della scrittura è dichiarato dal poeta ma il valore salvifico della parola diviene ‘soccorso’, in una formula secolarizzata ancora più efficace perché vuota di sovrastrutture: «voglio per un giorno sparigliare le carte, sottrarre un giorno al moto rettilineo del tempo, forgiare con la mente una chicane».

 

In questa intenzione di resistenza si assottiglia il confine tra dedizione ai dettagli e ricerca personale: ci si ritrova nella stessa casa che ci ha fatto nascere a domandarsi «il significato di quel transito», a ricostruire l’archeologia domestica che ha scavato la nostra esistenza dotandoci di «stivali di gomma per il guado», seppur a volte claudicanti: «non posso / attraversare indenne la ferita, / se quella ferita è ovunque». Allo stesso modo collassa il confine tra poesia e prosa, accostate con molta naturalezza, come un montaggio «in ritardo /sulla poesia», e sempre nell’incertezza che «sia poesia ciò che scrivi». Nella precisione così attenta agli smottamenti e ai cedimenti si preserva lo spazio per l’immaginazione e il lettore è lasciato libero di costruire immagini sulle immagini: «chi osserva / potrà immaginare un disastroso / incendio o un impianto / di vele, sortite / da quelle due gemme salvate».

 

I versi di Chicane ci chiedono presenza ed esplorazione, configurando un percorso nel quale l’instabile armonia d’insieme può divenire ‘nostalgia’ in senso etimologico: dolore di un viaggio e dei suoi possibili deragliamenti capaci di trasformarsi, se lo sguardo si affila, in altrettante epifanie di un modo diverso di viversi e con-viversi, consapevoli che «di questa traversata siamo tutti autodidatti». Nostalgia come promessa di simmetria «che la poesia cerca di ricostruire nel breve transito che a ognuno di noi tocca fare nel ‘quartiere cosmico’ senza la consolazione di un ordine che sia preventivamente e da sempre previsto per noi», per citare le bellissime parole di Pelliti nell’introduzione a Rosette.

 

Non so da dove scaturisca la scrittura di Beghè, forse da un «coagulo di un crème caramel / che prende forma» o da «un coagulo di memoria» che, come un frattale, si espande a includere passato, presente e futuro, intrecciando una complessità di strati per poi tornare a «disperdersi in migliaia di slogati incroci». Ma quando penso a Chicane non penso a rettilinei, chilometri macinati da motori roboanti, corse contro il tempo: penso a quella panchina che, come una «bestia calma» osserva accadere il mondo con curiosa incredulità, prima di accompagnarci «fraterna alla svolta».

 

 

Silvia Patrizio

 

 

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Dettatura del sangue

 

Sono versi scritti sotto dettatura
del sangue. Il lupo infierisce,
non sottilizza, si prende pure
gli studenti in alternanza. È
il mercato bruttezza, che lo stato
silente, impotente, connivente,
autorizza. Imbianca le pareti
con la calce il capitalismo. È magra,
annichilita, la memoria dei caduti.

 

 

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Bestia calma

 

Lo stoma dell’autobus mi proietta
nel cielo rosso oltre il distributore
in stato d’abbandono, nel piombo
sottratto ai passi del ritorno,
quando la tabella arrugginita
dei gelati appesa al muro chiama
casa, il controviale è quasi un tavolo
di pace, che si rinnova ogni sera.
Tra i cestini stracolmi e le radici
che spaccano il manto cementata
al terreno la panchina, corpo di legno
e metallo, è una bestia calma,
un’abitudine a bordo strada,
se l’accarezzi sul dorso fa le fusa,
fraterna ti accompagna alla svolta,
una decina di metri più avanti.

 

 

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L.I.F.O. (Last in first out)

 

all’età di undici anni, il giorno prima di essere cresima­to, andò ad abitare dall’altra parte della città, in una stradina che termina contro la ferrovia. Fino all’età di trent’anni, quando le banalità della vita lo indussero a cambiare città, almeno tre volte al giorno la segnaletica verticale gli ricordò la sua condizione di abitante in una strada chiusa. I casi della vita vollero che anche la sua nuova abitazione, seppure ad oltre cento chilometri di distanza, si trovasse in una strada chiusa. Da allora per altri trent’anni il medesimo segnale lo aspettò al rien­tro. Alla fine si affezionò tanto ai vicoli ciechi che ne costruì uno su misura, portatile, e lo posizionò proprio dietro la fronte, protetto dalla scatola cranica.

 

 

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Daniele Beghè è nato nel 1963 a Parma dove vive. È un libero professionista che lavora nel campo della formazione aziendale in ambito economico e giuridico.  Legge poesia con passione fin dai primi anni del liceo, ma ha cominciato a scrivere solo dopo i 40 anni. Ha pubblicato tre raccolte di poesia: “Il galateo dell’abbandono” (Tapirulan, 2016), “Quindici quadri di quartiere ed altri versi” (Consulta libri/progetti); “ROSETTE (quartiere cosmico)” (Arcipelago Itaca, 2021), con i quali ha conseguito diversi premi e segnalazioni in concorsi poetici a livello nazionale. I suoi versi sono contenuti anche in alcune opere collettanee quali: “Testimonianze di voci poetiche, 22 POETI A PARMA” (Punto a capo, 2018), “Quarto repertorio di poesia italiana contemporanea (Arcipelago Itaca, 2020). Alcuni testi tradotti dalla poetessa Marilyne Bertoncini sono presenti sulle riviste francesi Phoenix e Voix.

 

Silvia Patrizio nasce a Pavia nel 1981. Dopo il liceo classico si laurea in filosofia, specializzandosi successivamente in filosofie del subcontinente indiano e lingua sanscrita. Smentire il bianco (Arcipelagoitaca, 2023), la sua prima raccolta poetica, con prefazione di Andrea De Alberti e postfazione di Davide Ferrari, vince la III edizione del premio nazionale Versante ripido (2024) e il primo premio assoluto alla XVI edizione del premio nazionale Sygla – Chiaramonte Gulfi (2024), classificandosi anche al primo posto nella sezione poesia edita del medesimo premio. La silloge ha ricevuto, inoltre, una segnalazione ai premi nazionali Lorenzo Montano 2023 e Bologna in Lettere 2023. Suoi testi compaiono su diversi lit-blog e riviste, sia cartacee che online, tra cui L’anello critico 2023 (Capire Edizioni, 2024); Metaphorica – Semestrale di poesia (Edizioni Efesto, 2024); GradivaInternational Journal of Italian Poetry (Olschki Edizioni, 2023); Officina Poesia Nuovi Argomenti (2023); Inverso – Giornale di poesia (2023); Universo PoesiaStrisciarossa (2023). Fa parte della redazione della rivista Atelier Online. Tutte le sue passioni stanno nei dintorni della poesia.

 

 

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© Fotografia di Giancarlo Baroni.