Cristina Annino, quattro poesie da Magnificat (Poesie 1969-2009), Puntoacapo
Ma deve produrre ed è
talco con vibrisse d’addio. Si
fracassa così da questi picchi.
Spera
al centesimo d’ora che mangia, vive
senza preghiere abbeverando
pozzi, corre
sopra di sé nella stuoia di
io, sempre senza compenso sui
batuffoli delle strade. Sul tempo
magari ch’a vederlo, fa pena,
fa il proprio il dovere, con la
coda così e il corpo diviso, partito in
direzione delle mani; quei cinque di
vento – ci scommetterei – senza
pace.
***
Premettendo
ch’è sempre doloroso impalare
l’anima in un discorso, scrivere
un diario, lettere, versare
iride nella tinozza di un colloquio.
A quest’età e con i tempi che corrono,
io siedo al bordo dell’orecchio
universale; dico
“biondo, marziale cieco cielo
dove il tempo è rotondo: la verità
è orrendo cannocchiale”.
Poi mi rivolgo, ascolto chi parla,
annuso odore di vero nel parziale
gesto di chi mi appaia. Credo
a tutto; a quest’età si è un cimitero
abbastanza paziente.
***
Questo almeno: non voglio
finire a proverbi. Ventotto
anni ci mantiene il padre, poi caffé,
libri, un brodo in solitudine. Ma più
triste è spiegare ch’è il tuo, questo, modo
giusto di stare al mondo. E devi
farcela, col duro elastico della lingua. Lei
il baule del viso lo posò, gli occhi due
schiavi, nel profondo. Si concentrava per
combattere e insieme
moriva un nucleo sodo. Il vecchio
destino va trattato bene, è delicato. Dove
guarderò, avendola davanti? Mi cambierò
camicia e sposterò con la mano
il muro, quasi fosse una tenda. Poteva
insolitamente darmi di più un trasloco.
Ma lei lì, bianca e floscia
di ragione, ed era proprio la casa dappertutto
che casca con radici più ossa d’una persona.
Ventotto anni per un brodo, in questo
sporco posto piccolo della gente. Impari
solo così che si è
grandi diventando altro da sé, come niente
di sé è un mostro. Resti dura
la crosta, tesoro, nei cieli. Se poi
non riesci, riprovi. E tale
tentativo è l’angoscia.
***
Lui la rese cortese come
fossero in città e non nel paese fisico
delle torri. La portò
al bar non parlandole da paesano.
Lei
che aveva giacche più blé della
lana su una nave e oro al collo.
Tutt’insieme gli stava davanti, brutta
merce, piccina; poi accese
un sigaro misericordioso sul
cruscotto della radio, frullando
sopra lui dita di carne o
branchie o come fosse un
affare. Gli disse, in
scarpe di quinta elementare,
che
sarebbe stato il vero
padrone del mondo.