Daniela Pericone, “Corpo Contro” (Passigli, 2024)

Nota e cura dei testi di Enza Silvestrini

 

«Aspettiamo qualcosa la cui apparizione sarebbe il suo svanire» ci dice Mark Strand nel densissimo testo con il quale Daniela Pericone sceglie di aprire la sua raccolta.

Su questa traccia, che riassume l’inesausto paradosso della vita continuamente in fuga verso il suo contrario, si muove il canto dell’opera, snodata in cinque tempi profondamente uniti tra loro.

Ogni titolo di sezione, derivato da un verso di una poesia in essa contenuta, scandisce una musicalità essenziale ed elegante che caratterizza la poesia di Pericone; ogni titolo segna una tappa di un percorso conoscitivo che la poesia dischiude sulla radicale insensatezza dell’esistenza.

Una gioia inutile è il primo movimento di questa partitura in cui «ovunque il mondo / contempla la sua fine». L’inutilità della gioia è nel gesto ostinato di un tu, al quale la poesia altrettanto ostinatamente parla, di «spargere semi in aria». E seme è una parola che ritorna per diventare immagine di una vitalità che, contro ogni logica, non si arrende e continua a rifulgere, a esplodere nella moltiplicazione dei rami dell’albero destinato alla scure.

Con la vita anche l’inutilità si moltiplica nella ripetizione dell’aggettivo inutile, in parole (come trascurabile) che ridimensionano la portata di luoghi o di gesti, e soprattutto in espressioni verbali inchiodate a un non che nega l’azione (non serve; non risolve) assumendo la stessa funzione che in matematica ha il segno meno davanti al numero.

Come ci dicono alcune parole chiave (fuoco, più volte ripetuta, miccia, infiamma, deserto), è una sezione che vive di paesaggi abbagliati dal sole, metafora classica della conoscenza che è così forte da trasformarsi in fuoco che brucia e consuma, riduce ogni cosa in cenere.

Il meccanismo della ripetizione, conservando una mirabile sobrietà, è segno di un lungo lavoro di riflessione sul testo e di meditata lettura della poesia su questi temi nel solco di una grande tradizione (da Leopardi a Montale a Eliot solo per citare i nomi degli autori cui la poetessa esplicitamente allude). Questa sobrietà permette a Pericone di mantenere un equilibrio formale in cui, nonostante la drammaticità del contenuto, niente risulti urlato. Tutto si compone, come acutamente osserva Gianfranco Lauretano nella Prefazione, nel segno di una temperanza musicale e allusiva.

Contro un destino segnato inesorabilmente dalla perdita e dalla disgregazione, si erge la casa, emblema della memoria e della possibilità della durata. Nella casa, infatti, sembra ancora possibile tentare di custodire, affinché durino, cose minute proteggendole dall’azione erosiva del vento e del tempo. Nella casa sembra ancora possibile definire una strategia della gioia. L’immagine della sentinella, che appare in una poesia, e la forza del termine custodire suggeriscono che questa strategia consiste proprio nella difesa strenua dei dettagli, gli elementi sottili minati per primi dalla sparizione.

Eppure, colpisce che in un verso di una poesia (qui è la tua casa – ovunque sia) la sperata precisione di un avverbio come qui sia attenuata e capovolta dall’espressione ovunque sia. È una vertigine in cui ogni riferimento a coordinate certe svanisce.

A grandi falcate (è il titolo della seconda sezione) il vuoto avanza fagocitando ogni esistenza e il tempo stesso. Non a caso in questa seconda sezione, in contrasto apparente con la prima, l’atmosfera prevalente è quella dell’ombra, del freddo che attanaglia e gela persino il cuore dell’estate (agosto è il più freddo dei mesi). Ma, in fondo, i contrari (l’eccesso di caldo o di freddo) producono lo stesso senso di smarrimento cancellando anche le tracce di ciò che è stato. Ed è proprio intorno a quella soglia, sulla quale i contrari coesistono in una contesa di tenebra e desiderio, che la poesia di questa parte si interroga.

Nella prima poesia della sezione il salto fulmineo della lucertola, che scompare dalla vista, sintetizza il senso del trapasso, di quell’istante in cui ogni cosa può sprofondare nel suo opposto. Questa contraddizione di corpo e non più corpo è il destino comune che davvero unisce ogni forma vivente, gli esistiti e gli inesistenti.

La casa, possibile antidoto alla perdita, è negli occhi che, indifesi e nudi, sono ciò che resta.

Il passaggio dalla casa a gli occhi, allude anche al fatto che la casa è l’io (è l’immagine della psiche nella interpretazione junghiana), il corpo.

Le ombre di questa sezione trapassano nella notte della terza che ha come titolo, appunto, A guardia della notte. Sono dei cani, che non si riesce a distrarre né a rendere inoffensivi e che, pure, si dileguano all’improvviso, ad essere i guardiani della notte che diventa il buio dell’esistenza, sospesa in una tempesta di vento, e della conoscenza, sempre insidiata dal dubbio che non salva / dall’errore.

L’impotenza della lingua, che già nella seconda sezione era ridotta solo a le frasi del bisogno, si estende qui anche alla poesia. Versi come scrivo poche righe indecifrabili; scrivo senza nemmeno una voce o la poesia che guarda da lontano / accogli come una cosa tra le cose traducono una montaliana impossibilità della poesia di delineare rassicuranti certezze.

Nessun linguaggio, neanche quello poetico, può illuminare l’ignoto. Eppure, proprio denunciare questa impossibilità è il compito della poesia.

A fronte della condizione umana, sarebbe preferibile scambiare la [mia] sorte con quella dell’albero che nella pazienza delle sue radici e nel fulgore delle foglie incarna perfettamente la sua essenza.

La riflessione si allarga nella quarta sezione (Una forza impareggiabile) alla dimensione fisica, allo spazio che ci gravita intorno e dentro il quale siamo il gioco prediletto degli atomi. Da questa prospettiva cosmica la vita degli esseri umani, inutilmente affannati in guerre o a dividersi tra vittime e carnefici, e persino lo spreco delle vite non sembra così grave. È solo una variabile tra le tante in un universo dominato dal caso.

Nell’ultima sezione, Il turbamento (che raccoglie poesie nate dalle riflessioni e dallo studio della pittura di Caravaggio, come scrive l’autrice nella Nota) diventa arte quel varco, appena sfiorato, verso la possibilità di preservare qualcosa dall’opera distruttiva del tempo inscritta nella stessa materia del mondo, nella stessa carne di un corpo che, come recita il titolo dell’opera, proprio in quanto tale, non può che essere contro.

L’opera di Caravaggio, nella quale, senza gradazioni, il buio crea lo spazio e la luce plasma le figure, rivela forse l’unica verità attingibile: la materia prende il sopravvento anche sulle vicende umane. La compresenza dei contrari, l’attenzione al dettaglio, il senso della bellezza che porta già i germi del suo disfacimento, la rappresentazione sulla tela dell’istante esatto in cui si compie un’azione cruciale sono gli elementi artistici che fanno grande e rivoluzionaria l’opera di Caravaggio e che interessano poeticamente Daniela Pericone.

In fondo, come l’arte pittorica, attraverso Caravaggio, si spinge fino all’estremo territorio della rappresentazione del buio dove la pittura nega sé stessa e si confonde con la cecità, la poesia può tendersi fino a sfiorare il limite estremo del silenzio dove ascoltare è il solo talento.

 

 

Enza Silvestrini

 

 

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Questo è il tempo che non mente
un calcolo esatto che non risolve
la sedia spaiata di chi se n’è andato
l’inutile allerta della sentinella.

 

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Restano gli occhi
abbagliati nelle foto
confitti nell’istante
dallo sguardo che li ha colti
indifesi e nudi – tuttavia oscuri
a chiunque – chiedendo alla luce
l’ultima stilla, la voce perduta.
Questo solo unisce
cuore e non più cuore
corpo e non più corpo
al di sopra del tempo
dei vivi a venire
gli esistiti e gli inesistenti.

 

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Non fanno scudo contro le ombre
non coprono la piega stanca delle labbra
trascinano indietro, tirano calci negli stinchi.
Il baricentro si sposta, un bradisismo
silenzioso senza scosse.

 

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Dopo il crollo ascolta i segnali
il buio è meno buio, il dolore
non più acuto, o forse meno ostile.
Anche lo spreco delle nostre vite
non sembra così grave, una variabile
fisica tutto sommato irrilevante –
la maglia rotta nella rete
delle possibilità.

 

 

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Daniela Pericone è nata a Reggio Calabria nel 1961 e vive a Torino. Le sue pubblicazioni in ambito poetico, che hanno ottenuto diversi e importanti riconoscimenti, sono Passo di giaguaro (Edizioni Il Gabbiano, 2000), Aria di ventura (Book Editore, 2005, prefazione di Giusi Verbaro), Il caso e la ragione (Book Editore, 2010), L’inciampo (L’arcolaio, 2015, prefazione di Gianluca D’Andrea e nota di Elio Grasso), Distratte le mani (Coup d’idée, 2017, postfazione di Antonio Devicienti), La dimora insonne (Moretti & Vitali, 2020, postfazione di Alessandro Quattrone e nota di Giancarlo Pontiggia) e Corpo contro (Passigli Editori, 2024, prefazione di Gianfranco Lauretano). Sue poesie sono tradotte in diverse lingue; del 2023 è la plaquette bilingue Luminăscrisă/Luce scritta, con traduzione in romeno di Eliza Macadan (Bacău, Cosmopoli). Scrive testi di critica letteraria ed è redattrice diriviste e siti dedicati alla poesia.

 

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© Fotografia di Antonio Sollazzo.