Alessandro Ceni, “I bracciali dello scudo” (Crocetti, 2025) — Anteprima editoriale

Con una nota critica di Sarah Talita Silvestri

 

Come sempre la parola di Ceni nella sua epifania prorompe di solenne severità, e lo fa oggi nella nuova veste per Crocetti Editore, dove diventa sigillata opus interassile, un lavoro a traforo che aduna la sua produzione poetica edita e aggiunge una sezione contenente sette inediti dal titolo Felo de se, locuzione latina usata nel diritto inglese per designare i suicidi, reietti immeritevoli di degna sepoltura.

I bracciali dello scudo è un’opera archeologica a tutti gli effetti e non soltanto per il titolo che potrebbe già portarci sulla baia della laguna della Vistola o farci pensare a quei bracciali in vetro celtici, alle armille vitree di La Tène, ma perché si palesa su carta uno scavo dall’alto al basso e viceversa, una catabasi e un’anabasi incessanti che spingono il lettore su più direzioni verso un’agognata archè:

 

«conversami di questo,
balbutendo e strabicando
il persuasore col bastone magico,
il mimo poliglotta,
il corno di Rolando
e i denti di Bacon,
mia priva di dolcezza
mia latitudine
mia diomedea figliata anzitempo
che ascolti la tigre feroce»

 

Oltre che pittore, Ceni è poeta, opto per questa sequenza, perché il pittogramma impera in lui per locupletare e compiere la parola. Arduo tracciare il confine della sua arte, più ancora accettare qualsivoglia bidimensionalità: tutto, nella sua pittura come nella sua poesia smargina dal piano, si muove e retrocede fino alla Grotta Chauvet e poi avanza nel futuribile, nell’ipotesi di un ritorno rupestre esperibile nel verso visivo ed evasivo di un incantatore.

Questo ci fa comprendere il modo ceniano di vivere la poesia, lontano dal “mondo” mediocre e dalla mondanità: si esiste nel verso e solo lì si penetra il mondo arpionandolo, cingendolo. Nella necessità e impellenza della parola scritta e accolta, nell’ignoto sfiorato e ricevuto attraverso un’iniziazione che si compie, si sodalizza in danza corale il dialogo tra autore e lettore:

 

«Bisognava dormirci accanto,
vegliarlo tutta notte,
per stare lontano
pensarvi da lontano
di sorpresa
oltre la nuvolaglia del sudario
come genti dedite a un culto ignoto,
un popolo silvestre
chino su un ateo fuoco di castagne:
bisognava dormirci accanto,
superati fossi fittumi forre tossiche ostilità
d’occulti scompigli d’eleusine erbe,
per polveri
e alberi di stoffa,
per cespuglia,
dopo sgomentevoli redole e vagolanti rovete
o altre impossibili piante incarbonite
per straniero allaccio in solitudini color fine del mondo:
bisognava dormirci accanto,
allo stelo al suolo al macigno
alla manutenzione dello spirito,
girandoli ogni tanto per individuarti
se forse ti vibrasse un leggero vento addosso
dove la campagna
sbarrando i suoi ti guarda
arcaica falasca ammuttadora
deglutendo.»

 

Àugure, flamine cieco, cocchiere cacciatore di taglie, quileute nella sua riserva, Ceni mola e immola il verbum come torèuta di sortes, vaticinando su lamine bronzee nella casa nivale di un dio, di innumerevoli dèi:

 

«Io sono la neve che carola lieve
io sono la neve che glittera e imprata
io sono la neve che nevica neve.»

 

Molti gli esegeti che hanno a più riprese marcato il lato criptico e vaticinante dei suoi versi, la grandezza e la potenza di un rombo ispirativo che procede come in preda ad una predestinazione.
Olifante coreuta, ferula smossa che scrive il suo tamga, la voce del poeta-profeta disegna le onde di una depolarizzazione atriale, il tracciato di una partoriente:

 

«Per
sempre
concedici
la requie e
il salto nella notte
dei passi di qualcuno che
ti chiami e il traguardo della pioggia
sia raggiunto insieme altalenandosi al comando
per
quel
poco che
si arresta io
intono il morto alla vita
e alla morte e il fiume ti
riguarda le tue notizie licenziano
il mattino gli stessi passi si allontanano da soli
per
ché non
ieri una stella
e il maggio si scompone
in tre quadrati non resta che cercare
l’ingresso, varcare, e ancora ancora ancora.»

 

Il dissotterrare costante attraverso cui si sperimenta veramente il mistero di una fede poetica per cui l’assenza di un’evidenza non è mai evidenza di un’assenza, ma un’ombra, ambra, l’esistenza.
Orditrice di relitti, di corredi volutamente posti a segnacolo, la scrittura di Ceni trama filatteri. I bracciali dello scudo intersecano le traiettorie del sole, disegnando un’ecclittica che restituisce il sacro nella sua forma olistica, la vita, inscindibile dalla morte, nell’ossequio alla sua pienezza, fino al picacismo.

 

«Quanto a noi ci mettevano qui,
(fonte di paura)
in scantinati,
abitati da pietruzze colorate
da nugoli di sartiame asserpentinato e lasco
da lamie ricoperte d’una densa peluria di pulcredine,
impossibile fuire.
Ci gettavano sul cumulo preistorico
di conchiglie
biglie
(fonte di paura)
palline d’agata
ambra
schegge di punte di freccia
ossa iliache e crani trapanati
arenarie,
e su tutto questo
una rapita remigante d’albatro per stendardo,
impossibile fuire.
Per tenerci in camicette di forza
in lettini di contenzione
in pollicini angolini
(fonte di paura)
appariva, talvolta, una ninfa, bellissima,
una antilopa
leggerissima nella corsa
origine di giostrai
noi le facevamo muro intorno
affinché il suo zigano dispiegarsi di piviera
deputato al dilemma restare/partire
almeno nella mente ci accettasse,
impossibile fuire.
Ci travestivano di morti mestieri
ci fingevano calderai, carradori, marangoni, selciatori,
ci trasformavano con le parole,
(fonte di paura)
ci davano facoltà
con armi inadeguate
di far vincere finalmente gli indiani,
dell’animale l’arcaica dignità
la postura inattesa sulla soglia,
coraggio dell’esistenza e onore del canto,
poi
crudeltà e superstizione in vesti da camera
e in ultimo il veterinario.»

 

 

 

Sarah Talita Silvestri

 

 

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© Fotografia di Dino Ignani.