Bolle di sapone – Edoardo Sant’Elia – Bolla 3 “Sul banco dei pesci” di Carlotta Cicci

Bolla 3. Carlotta Cicci, Sul banco dei pesci, L’Arcolaio

 

È un libro mosso, inquieto, divagante, un libro che si lascia andare e che tuttavia ritorna sui propri passi senza temere contraddizioni, tutto inscritto in un flusso di coscienza portato alla luce senza compiacimenti, questo esordio poetico di Carlotta Cicci.

Un flusso di coscienza che non scade in maniera perché sostenuto volta a volta da una necessità del dire che s’allarga e si restringe nel ritmo di una versificazione fluida nella sua sincopata brevità, attenta a non farsi ingabbiare da schemi temporali o intellettuali: “sfuggo impalpabile e feroce / tra due epoche confuse // sono l’attimo dopo / la separazione”. Sembra collocarsi ai margini, sull’orlo della vita, su un cornicione alto lo sguardo della poetessa; che però poi si immerge tutta nella realtà, a partire dal proprio corpo, “Mi copro di argilla / colgo urti / apro le gambe / congiungo cose lontane”, un corpo che nella stessa poesia è scagliato all’indietro verso un passato senza fondali acquisiti: “inseguo vertigini / come un uccello cieco / che mangia il vuoto // sono preistoria”.

È nel divenire, mi sembra, l’essenza di questo volumetto. Un divenire le cui direzioni sono inevitabilmente contrapposte e sovrapposte; un divenire che accompagna ogni gesto, che precede il pensiero, che si concede pause, “Vorrei cadere / nel nero dei tuoi occhi / in uno spazio tenue”, ma pronto poi a riprendere lo scatto, la corsa: “Tesa / furtiva / sensuale / sposti l’aria // maneggi / con cura e agitazione / poi travolgi // al cospetto dell’oblio / tutto chiama // con un vulcano nel petto / e la paura di spargere lava / io taccio”. Qui l’io narrante non invade la realtà, piuttosto la contamina, si insinua tra le sue pieghe con un trasformismo liquido, “sono come un’alba / che perdete nel sonno / porto il cielo alla bocca / crollo e non faccio / nessun rumore”, ma anche sfacciato, urticante, “precipito di continuo / in acque impazienti / tra i vostri proclami”.

Ed all’io ‘mosso’ si contrappone, creando un intrigante corto circuito, la fermezza smaltata delle immagini, che rivela l’altra vocazione dell’autrice, già videomaker e fotografa. Grumi di versi, sequenze in cui emergono citati anche esplicitamente scorci di città che si animano, che precipitano nel fantastico senza nulla perdere della propria concretezza, anzi acquisendo una dimensione ulteriore, una patina che non dissolve: “quest’alba che sale / mentre Roma dorme / è una danza che stride / ci guarda”; oppure, giocando su altri registri: “Milano e i lupi davanti alla finestra / le mie vittime e i miei carnefici”. La visione spiazzante che non tradisce ma approfondisce il luogo è la chiave di queste immagini, dove il senso geografico di appartenenza c’è tutto ma spinto alle estreme conseguenze, alimentato e portato a combustione da una fantasia pertinente, che non divaga, che aderisce alle sensazioni, che scatta istantanee interiori tanto invisibili quanto perfettamente plausibili.

Il percorso è aperto e non potrebbe essere altrimenti. L’inizio del volume e la sua fine non costituiscono una traiettoria, non tracciano passi verso una meta, troppe le tappe, gli incidenti, i sogni, gli sbalzi d’umore. E tuttavia, “Ho l’obbligo / di rimanere intera”, ricorda a sé stessa – con ironia, con speranza, con malizia? – l’autrice; che negli ultimi due versi della raccolta, versi che non sigillano, anch’essi aperti nella loro laconica semplicità, aggiunge: “Ho bisogno di risposte / umane”.