Come si fa a non tradurre uno così?
Camminava in lungo e in largo per gli stanzoni della Biblioteca Imperiale di San Pietroburgo fra le flebili luci che rendevano liquida l’atmosfera e mentre camminava, puntando le sue pupille come chiodi sugli scaffali, cercava la formula che sarebbe diventata il suo trauma, la lesione improvvisa. Era ancora un moccioso, il colore verdastro della prima peluria aveva ombrato da poco il suo mento, aveva le guance incavate, aveva fame, un’inquietudine innata gli scaldava le piante dei piedi, i polpastrelli e la carne sotto le unghie, le labbra storte e la fronte alta da animale. Non era che un ragazzino, faceva l’apprendista orologiaio, la sua anatomia sprizzava irrequietezza, era nato in Svizzera, 1887, si chiamava Frédéric Sauser e il suo nome gli stava stretto, percepiva l’odio per la sua identità, aveva rifiutato in modo totale la padronanza genitoriale, scappò da tutto, scuole collegio università, voleva nutrirsi di fiamme, era un figlio del fuoco, avrebbe tracciato sul mondo un’infinità di rotte, avrebbe risalito l’Orinoco a bordo di una zattera, attraversato innumerevoli volte l’Atlantico, conosciuto il raggio verde, le costellazioni australi, la Croce del Sud, avrebbe appagato la sua enorme tristezza spingendosi a cavallo nella Patagonia profonda, sarebbe montato sul cofano della Transiberiana per fendere come una lamina l’Asia intera, avrebbe vissuto contento ma anche pieno di cupezza, sarebbe stato legionario nella Grande Guerra, avrebbe ucciso, sanguinato, avrebbe perso l’avambraccio destro, la mano della scrittura, la mano mozza, avrebbe imparato a scrivere con la sinistra, non si sarebbe accontentato di un normale calamaio, avrebbe inzuppato il suo stilo nella vita e avrebbe forgiato un nome nuovo per sé, ma queste cose nel periodo in cui bazzicava la Biblioteca Imperiale di San Pietroburgo, ancora giovane, non poteva saperle.
Cominciò a intuirle però e un giorno gli arrivarono addosso come frecce, come una specie di precognizione che gli si piantò sul palato nell’attimo in cui pronunciò le parole «Je suis l’autre». Questa formula fu l’alterazione, il corpo messo alla rovescia, gli occhi che hanno guardato febbrilmente e hanno finito per vedere. Aveva trovato un libro, era di Gerard de Nerval, o magari era stato il libro a trovare lui. Lo aprì, osservò una foto del poeta, lesse l’incisione che Nerval aveva lasciato al margine di quella foto poco prima di suicidarsi: «Je suis l’autre». Per Frédéric fu un’allucinazione conoscitiva, in quell’istante come in una frantumazione dell’essere il suo computo gli fu chiaro, fu una scarica elettrica irradiata dal nervo ottico: «Je suis l’autre» rispose e scelse.
Non tornò a vivere in Svizzera, troppo borghese troppo miope e puritana; lasciò San Pietroburgo, il lavoro da orologiaio; rinunciò a tutti i lavori che i suoi volevano affibbiargli, perché un lavoro è soprattutto una servitù sociale che lega, che fissa, che definisce troppo, un dogma che va abbattuto; non fu più il commesso di un ricettacolo, non fu avvocato come suo fratello, neppure medico come tutti avevano previsto – un essere vivente non si adatta mai al suo ambiente, oppure se lo fa finisce per morire, la lotta per la vita è la lotta per il non-adattamento, vivere è essere diversi. Fu un artista, un grande avventuriero, un uomo d’azione, un poeta, un cineasta, un cronista, un critico, un circense, un suonatore di gusla, un vagabondo, fu amico degli zingari, una spia dei servizi segreti, un aviatore, un reporter, un esteta, un amante, un guidatore incallito, un passionista dell’alta velocità, un pilota, un meccanico, un cercatore d’oro, un domatore di foreste, un domatore d’orsi, uno strimpellatore di pianoforte, un editore, un malvivente, un gentiluomo, un marinaio, un clown e un allevatore di cani, un contrabbandiere, un venditore di quadri e un barman, uno sempre con la sigaretta all’angolo della bocca, un trovatore medioevale, una leggenda errante, ottimista pessimista e uomo d’affari, spirito senza pregiudizi, divoratore erudito e dissociatore d’idee: l’altro per Frédéric era tutte queste cose e finì per diventarle sul serio. Si fece un nome nuovo e fu il primo a portarlo: Blaise Cendrars, come braise e come cendre: il poeta brace che rinasce dalla propria cenere.
Come si fa a non a tradurre uno così?
AU COEUR DU MONDE
I miei amici mi dicono
Cendrars tu sei triste
Mi domandano
Insomma che hai
Non gli rispondo
Poiché ho dentro di me ciò che mi rende felice e distante
E che porto e che mi eleva
Vorrei arrivare
Vorrei arrivare a fare
Vorrei arrivare a fare quello che devo fare
Vorrei arrivare a scrivere
Vorrei arrivare a scrivere quello che devo scrivere
Il mio cuore e tutto quello che straborda
E non se ne ha mai il tempo etc.
Al margine di Au coeur du monde, BLAISE CENDRARS
Questo cielo di Parigi è più puro d’un cielo d’inverno lucido di freddo
Mai vidi notti più siderali e più dense come in questa primavera
Dove gli alberi dei boulevards sono come le ombre del cielo,
Fronde nei fiumi mischiate alle orecchie d’elefante,
Foglie di platani, massicci castagni.
Una ninfea sulla Senna, è la luna a filo d’acqua
La Via Lattea nel cielo si spalma su Parigi e la stringe
Folle e nuda e riversa, la sua bocca succhia Notre-Dame.
L’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore grugniscono attorno a Saint-Merry.
La mia mano mozza brilla in cielo nella costellazione di Orione.
In questa luce fredda e cruda, tremolante, più che irreale,
Parigi è come l’immagine raggelata di una pianta
Che riappare nella sua cenere. Triste simulacro.
Messe a filo e senza età, le case e le vie non sono
Che pietra e ferro a mucchi in un deserto inverosimile.
Babilonia e la Tebaide non sono più morte, questa notte, della città morta di Parigi
Blu e verde, inchiostro e catrame, i suoi spigoli sbiancati sotto le stelle.
Non un rumore. Non un passante. È il pesante silenzio di guerra.
Il mio occhio va dai pisciatoi all’occhio viola dei lampioni.
È il solo spazio rischiarato dove trascinare la mia inquietudine.
È così che tutte le sere attraverso tutta Parigi a piedi
Da Batignolles al Quartiere Latino come attraverserei le Ande
Sotto i fuochi di nuove stelle, più grandi e più costernanti.
La Croce del Sud più prodigiosa a ogni passo che si fa verso di lei mentre emerge dal vecchio mondo
Sul suo nuovo continente.
Sono l’uomo che non ha più passato. – Solo il mio moncone mi fa male. –
Ho preso una camera d’hotel per stare completamente solo con me stesso.
Ho un paniere di vimini tutto nuovo che si riempie dei miei manoscritti.
Non ho né libri né quadri, nemmeno un gingillo da artista.
Un giornale sta sparso sul mio tavolo.
Lavoro nella mia camera sguarnita, dietro un vetro appannato,
A piedi nudi sul pavimento rosso, e giocando con dei palloncini e con una trombetta da bambini:
Lavoro alla FIN DU MONDE.
HÔTEL NOTRE-DAME
Sono ritornato al Quartiere
Come ai tempi della mia giovinezza
Credo che sia fatica sprecata
Perché niente rivive in me
Dei miei sogni delle mie disperazioni
Di quello che ho fatto a diciott’anni
Si demoliscono isolati di case
Hanno cambiato il nome delle strade
Saint-Séverin è messo a nudo
La piazza Maubert è più grande
E la Rue Saint-Jacques s’allarga
Trovo questo molto più bello
Nuovo e più antico assieme
È così che essendomi fatto saltare
La barba e i capelli d’un colpo
Porto una faccia d’oggi
E il cranio di mio nonno
Per questo non rimpiango nulla
E chiamo i demolitori
Sbattete a terra la mia infanzia
La mia famiglia e le mie abitudini
Mettete una stazione al loro posto
O lasciate un terreno vuoto
Che sprigioni la mia origine
Non sono il figlio di mio padre
E non amo che il mio bisavolo
Mi sono fatto un nome nuovo
Visibile come un manifesto blu
E rosso affisso su un’impalcatura
Dietro cui si edificano
Le novità del domani
D’improvviso mugghiano le sirene e corro alla finestra.
Già tuona il cannone dalle parti di Aubervilliers.
Il cielo si costella di aerei crucchi, di granate, di croci, di razzi,
Di grida, di fischi, di melismi che fondono e gemono sotto i ponti.
La Senna è più nera dell’abisso con le pesanti chiatte che sono
Lunghe come le bare dei grandi re merovingi
Fregiate di stelle che si perdono – in fondo all’acqua – in fondo all’acqua.
Spengo la lampada dietro di me e accendo un grosso sigaro.
Le persone che scappano in strada, strepitanti, svegliate di soprassalto,
Vanno a rifugiarsi nei sotterranei della Prefettura che puzzano di polvere e salnitro.
L’auto viola del prefetto incrocia l’auto rossa dei pompieri,
Fatate e agili, feroci e delicate, tigri come stelle cadenti.
Miagolano le sirene e si tacciono. La cagnara è al massimo. Lassù. È pazzesco.
Latrati. Crepitamenti e grave silenzio. Poi caduta acuta e sorda violenza di siluri.
Sgretolamento di milioni di tonnellate. Bagliori. Fuoco. Fumo. Fiamme.
Fisarmonica dei 75. Accessi di tosse. Grida. Caduta. Stridori. Tosse. E arresto dei crolli.
Il cielo è tutto intricato da ammiccamenti d’occhi impercettibili
Pupille, fuochi multicolori, che tagliano, che fendono, che aizzano le eliche melodiose.
Un proiettore illumina a bruciapelo il manifesto di bébé Cadum
Poi balza in cielo e fa un buco latteo come un biberon.
Prendo il mio cappello e scendo anch’io nelle strade nere.
Ecco le vecchie case panciute che si reggono in piedi strette come vecchie.
I camini e le banderuole indicano il cielo intero con il dito.
Risalgo la rue Saint-Jacques, le spalle infossate nelle tasche.
Ecco la Sorbona e la sua torre, la chiesa, il liceo Louis-le-Grand.
Un po’ più in alto domando d’accendere a un panettiere al lavoro.
Fumo un altro sigaro e ci guardiamo sorridendo.
Ha un bel tatuaggio, un nome, una rosa e un cuore trafitto da un pugnale.
Quel nome lo conosco bene: è quello di mia madre.
Esco di corsa sulla strada. Eccomi davanti alla casa.
Cuore trafitto da un pugnale – primo punto di caduta –
E più bello del tuo torso nudo, bel panettiere –
La casa dove sono nato.
229 Rue Saint-Jaques
Mai una bomba tedesca
Ti farà stramazzare a terra
Vecchia casa di Parigi
Dove fu scritto
Le Roman de la Rose
Una targa sta al primo piano
Io guardo al quarto una finestra illuminata
Non so chi abiti oggi la camera dove sono nato
Una targa al primo piano
Dice che è proprio là
Che Jehan de Meung scrisse
Le Roman de la Rose
In una vecchia casa di Parigi
È in una notte come questa gremita di stelle di bocche
d’occhi, di mazzate e di succhiamenti
Che sono venuto al mondo
il 1° settembre 1887
È in una notte come questa che un sangue bruciò il mio cielo,
che un suolo s’aprì sotto di me
Oh gravità!
E che sono venuto al mondo
il 1° settembre 1887
Ero pieno di moccio e di liquido salmastro, pinne
di carne si staccavano dai miei talloni
Quando sono venuto al mondo
il 1° settembre 1887
Mi dimenavo e sudavo bianco, diedi un colpo di reni
ero pieno di spasmi
Quando sono venuto al mondo
il 1° settembre 1887
E tutto d’un colpo il legaccio che mi tratteneva ancora si spezzò di netto, stavo per soffocare
Lottai, di battiti all’udito piena la testa, il freddo
s’impadroniva di me
E sputavo il fuoco che mi riempiva la bocca
Quando sono venuto al mondo
il 1° settembre 1887
Il mio primo grido! Mi si conficcò nel timpano. E il fuoco che
avevo appena liberato mi colò dalle orecchie dritto al cuore
Sentii per la prima volta come un borborigmo
gigante parole confuse per colui che viene al
Mondo
Il ventre di mia madre
È il mio primo domicilio
Era tutto tondo
Molto spesso m’immagino
Ciò che veramente potevo essere…
I piedi sul tuo cuore mamma
Le ginocchia contro il tuo fegato
Le mani contratte verso il canale
Che sfociava nel tuo ventre
La schiena contorta a spirale
Le orecchie piene gli occhi vuoti
Tutto accartocciato teso
La testa quasi fuori del tuo corpo
Il mio cranio al tuo orifizio
Godo della tua salute
Del calore del tuo sangue
Delle strette di papà
Spesso un fuoco ibrido
Elettrizzava le mie tenebre
Una botta al cranio mi faceva scattare
E tiravo calci sul tuo cuore
Il grande muscolo della tua vagina
Si restringeva allora duramente
Fra dolori atroci mi lasciavo fare
E tu m’inondavi del tuo sangue
La mia fronte è ancora ammaccata
Per quei colpi di mio padre
Perché bisogna farsi ridurre
Così mezzo strozzato?
Se avessi potuto aprire la bocca
T’avrei morso
Se avessi potuto già parlare
Avrei detto:
Merda, non voglio vivere!
Sto ritto sul marciapiede di fronte e contemplo a lungo la casa.
È la casa dove fu scritto Le Roman de la Rose.
216 di rue Saint-Jacques, Hôtel des Étrangers.
Al 218 c’è l’insegna di una levatrice di 1ª classe.
Siccome era al completo mandò mia madre a coricarsi e a partorire all’hotel affianco.
Cinque giorni dopo prendevo il piroscafo a Brindisi. Mia madre andava a raggiungere mio padre in
Egitto.
(Le paquebot, packet-boat, il pacco, il corriere, la valigia;
si dice ancora la valigia delle Indie e lo si chiama sempre
il lungo corriere il tre alberi che fa crociera per capo Horn.)
Sono pelagiano come la mia balia egiziana o svizzero come mio padre
O italiano, francese, scozzese, fiammingo come mio nonno o non so più quale remoto avo fabbricante
d’organi in Renania e in Borgogna, o quell’altro
Il miglior biografo di Rubens?
E ce n’è ancora uno che cantava al Chat-Noir, m’ha detto Erik Satie.
Tuttavia sono il primo del mio nome perché sono io che l’ho inventato di sana pianta.
Ho sangue di Lavater nelle vene e sangue di Eulero,
Quel famoso matematico chiamato alla corte di Russia da Caterina II e che, diventato cieco a 86 anni,
dettò a suo nipote Hans, di 12 anni,
Un trattato d’algebra che si legge come un romanzo
Per provare che se aveva perso la vista, non aveva perso la sua lucidità
Mentale né la sua logica.
Sto sul marciapiede di fronte e guardo la stretta e alta casa di fronte
Che si specchia nel fondo di me stesso come nel sangue. Fumano i camini.
Si fa nero. Mai vidi notte più siderale. Tuonano le bombe. Piovono le schegge.
Il lastricato sventrato riporta alla luce il cimitero etrusco costruito sul cimitero dei mammut
riportato alla luce
In quel cantiere dove si edifica l’Istituto Oceanografico del principe di Monaco
Contro la cui palizzata indietreggio e barcollo e mi attacco
Manifesto nuovo sui vecchi manifesti lacerati.
O rue Saint-Jacques! vecchia fessura di questa Parigi che ha la forma d’una vagina e di cui avrei voluto
girare la vita al cinema, mostrare sullo schermo la formazione, l’assembramento, l’irraggiamento attorno al suo nocchio,
Notre-Dame,
Vecchia fessura in profondità, lungo camminamento
Da porte des Flandres a Montrouge,
O rue Saint-Jacques! Sì, barcollo, ma non sono ferito a morte, tantomeno sfiorato.
Se barcollo, è perché questa casa mi spaventa ed entro
– Secondo punto di caduta – in questo Hôtel des Étrangers, dove più di una volta ho preso una
camera a ore per il giorno
O per la notte, mamma,
Con una donna di colore, con una ragazza imbellettata, di d’Harcourt o del Boul’Mich’
E dove sono rimasto un mese con quella ragazzetta americana che doveva ritornare dalla sua famiglia a New York
E che lasciava partire tutte le navi
Perché stava nuda nella mia camera e danzava davanti al fuoco che bruciava
Nel mio camino e ci divertivamo a fare l’amore ogni volta che la fioraia all’angolo ci portava una canestra di violette di Parma
E leggevamo insieme, andando fino in fondo, la Physique de l’Amour o il Latin Mystique
di Remy de Gourmont.
Ma questa notte, mamma, entro solo.
HÔTEL DES ÉTRANEGERS
Qual è Amore il nome del mio amore?
Si entra Si trova un lavandino una forcina
Per capelli dimenticata in un angolo
O sul marmo
Del camino o caduta
In una spacca del pavimento
Dietro il comodino
Ma il suo nome Amore qual è il nome del mio amore
Nello specchio?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Parigi, 1917
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Traduzione di Mario Eleno, Manuela Muse, Daniele Fedeli