Atelier intervista Mario De Santis:
“Se la soggettività del poeta prevarica la poesia…”
1) Soprattutto nelle ultime generazioni sta emergendo in questi giorni il nodo di cosa si possa considerare poesia. Nella tua esperienza, è possibile unire tutto in un unico grande contenitore? E, in generale, tra valenza formale e valenza sostanziale è possibile un accordo?
Avendo acquisito più competenze, da quella tecnica con gli studi sulla poesia contemporanea, dagli anni 80, in poi, a quella anche storico-giornalistica, con le dinamiche culturali e sociali del nostro paese, a cui mi dedico dallo stesso periodo dell’Università, mi sono fatto l’idea che stiano cambiando i parametri interpretativi di quella disciplina che chiamiamo “estetica” e che regge anche implicitamente ogni giudizio sui testi. A maggior ragione se si ha bisogno di rifondare ogni volta il concetto di una forma, un genere, anche se i generi superati, e che definiamo col sostantivo “poesia”. Sarò lungo per una risposta, ma breve rispetto a quanto sarebbe necessario. Si oscilla sempre sull’altalena di quel che Matteo Fantuzzi chiama qui su Atelier “valenza sia sostanziale che formale”, ma spesso è sempre un affermarsi di “forme” anche quando si rifiutano tutte le forme, in alcuni casi di poetiche radicalmente “anti-formali”. Furono contro una forma dominante tutti i poeti del secolo, lo erano i futuristi, le avanguardie, perché ne facevano proclami, ma lo fu più radicalmente ancora Ungaretti e tutti i lirici lo sono stati, poeti che rompono le forme. Anche il “ritorno alla forma” lo è, se si considera la dominante socioculturale di un canone. Lo fu Milo De Angelis nel 1976 e poco dopo in altro modo Valerio Magrelli rispetto alla dominante politica o neoavanguardista che occupava la scena letteraria. Sul piano delle rotture “radicali” metto un evento che si celebra in questi giorni, ed è il Festival di Calstelporziano dell’estate del 1979, ovvero quello in cui si è inaugurata la stagione del “pubblico” (in generale e non solo della poesia come lo chiamarono Cordelli e Berardinelli)e del fatto che nell’espressione di sé “ognuno” vale quanto “l’uno” che è sul palco – a suo modo quella poesia di quei simpatici, ma dilettanteschi sciamannati che salirono sul palco a parlare dei loro “bisogni” interrompendo i poeti, è scomparsa, ne ricordiamo però di quell’evento la “sostanziale” e collettiva rottura e crollo (anche non metaforico) del cosiddetto gotha della poesia che era riunito sopra. Oggi è in atto il compimento di quell’evento e non solo in poesia. C’è un gotha anche oggi? Non lo so. Ci sono centri di potere come Istituto, a volte dipartimenti, editori e alcuni festival. On necessariamente come è stata chiamata nella polemica di questi giorni è una “gerontocrazia”. In ogni caso al contrario, vedo anche, come allora su palco i giovani Cucchi e De Angelis, dei poeti under 40, attivi e con, a volte, buon riscontro – ma gruppi e piccoli poteri ci sono sempre, anche tra i giovani, purtroppo, fenomeno ciclico, ma la poesia italiana di oggi è variegatissima, molto più che in passato quindi non c’è un ritratto univoco possibile).
2) Il pubblico della poesia oggi va inseguito o va portato ad una maggiore consapevolezza?
Il pubblico oggi ha un grande potere, l’epoca del marketing e del populismo ne sono i due esempi. Si seguono gusti, indicazioni, istinti. L’epoca moderna, è stata dominata da spinte dal basso interpretate diversamente: chi le ha assecondante, chi ha provato a mediarle. Le migliori conquiste culturali anche di massa sono quelle nate dal mix tra spinta dal basso al cambiamento e mediatori che la interpretavano e in qualche modo proponeva, con la loro consapevolezza, un prodotto che potesse anche piacere. Ritengo l’epoca dei Beatles l’esempio fulgido: c’erano musicisti, studio, menti musicali, mediatori. Gli artisti sono dei mediatori che devono giocare tra sorpresa, scarto dalla norma e però anche dialogo con la langue diffusa. Certo dipende dal livello culturale e in un certo senso anche dall’affidamento del pubblico ai suoi mediatori. (Cosa che oggi è contestata, da “Amici” di Maria alla Vivinetto, perché guai a esercitare la critica verso i giovani aspiranti artisti – c’è subito rivolta e messa in discussione “ma tu chi sei per dirlo?” – lo direbbero anche degli aspiranti papi a Gesù, sono piuttosto pessimista al momento, la massimo c’è il modulo “Greta” uno-di-noi.) Ripartiamo da Baudelaire. L’epoca “del pubblico” porta in primo piano quella che Mazzoni, nel suo famoso volume sulla lirica moderna, chiama il “mandato sociale” del poeta. Chi lo decreta il Mandato sociale ovviamente la parte di società che legge e legge secondo dei canoni, dei gusti. E’ per questo che “mandato sociale” non va letto solo nei suoi caratteri sociologici ma mescolato a una definizione estetica e formale di poesia, determinata dalla fruizione, non assoluta. Quando Mazzoni introduce nel libro il concetto inizia col fare l’esempio di Baudelaire. Il poeta fondatore della lirica moderna, in due differenti edizioni arrivò a venderne circa 2300 copie, mentre nello stesso periodo Eugene Sue aveva venduto complessivamente centinaia di migliaia di copie, tanto che l’autore s’era comprato la sua stessa casa editrice – sono tutti dati che trovate in Charles Baudelaire. “Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato” di Walter Benjamin nella fondamentale cura di Agamben. Ma al tempo di Baudelaire più o meno, la società borghese che leggeva testi letterari era LA società borghese tutta, che, insieme a tutto quel che si può fare a teatro, nella lettura trovava l’unica forma di intrattenimento, oltre che di apprendimento. Era una società ristretta nei numeri, ma quel segmento aveva la pratica della lettura di testi letterari e poetici come pratica diffusa, accettava l’idea di affidarsi e dare mandato a figure di mediatori. Lo stesso vale per chi proponeva testi letterari. Ovviamente poi bisognava leggere. Il dato importante è che il livello di scolarizzazione, poiché era ristretto, era anche mediamente più alto. Oltretutto la letteratura era parte di un consumo quotidiano di intrattenimento. La gran parte delle persone che sapeva leggere, leggeva testi letterari. (certo, più Sue che Baudelaire, ma leggevano quasi tutti ed erano in grado di rifiutare Baudelaire partendo da loro canoni di lettori che Baudelaire voleva rompere – in poesia era praticato e apprezzato il parnassianesimo, che Baudelaire stravolge). Data questa premessa di presenza della letteratura nei “saperi” correnti, che quando un poeta come Baudelaire cambia forma lirica, crea un dissenso poetico, formale, quindi anche culturale quindi sociale, quindi politico. Lo fa grazie al fatto che la larga platea dei leggenti era anche una platea di lettori di letteratura. Egli crea un dissenso e una rottura, e tutte le tensioni letterarie – che diventano culturali e speso politiche – che conosciamo sono legate a questa ricezione che noi classifichiamo come “destini generali” ma in realtà sono dovuti a azione specifica di settori sociali ristretti; ristretti in senso assoluto, ma “generale” in senso relativo, (insomma per dirla in modo semplice, va a scuola il 30% della popolazione ma quel 30 legge all’80% libri di letteratura). Ecco, per tutto il XX secolo è stato più o meno così in Europa, fino agli anni ’60. Gruppi sempre più allargati, ma sostanzialmente appartenenti a ceti borghesi, medioborghesi, accede all’istruzione, a una buona istruzione, è in grado di leggere un classico, ritiene la cultura cosa importante. Nel frattempo era esplosa nel dopoguerra il consumo di massa di cultura pop, ci sono altre forme di fruizione estetica – cinema, canzone, in parte la tv, ecc. Poi c’è stato il ‘68, ma soprattutto il ’77 che cambia tutto e cambia anche la poesia.
Come provocazione io amo dire che a Castelporziano si inaugura l’era di “Amici di Maria de Filippi”. E la drammaturgia è la stessa. Autori nuovi,immaturi, dilettanti, che vogliono salire sul palco e contestano la “giuria” dei competenti o degli artisti già-consolidati, col pubblico da arena a fare da giudice, e che non giudica il migliore ma il più simpatico (Castelporziano sarà ricordato più che per “Urlo” di Ginsberg, per l’urlo “è pronto il Minestrone!!” che fu portato col pentolone sul palco – è l’EcceBombo della poesia italiana, da allora fino a Catalano è stato tutta una pietra rotolante.). C’era folla su quella spiaggia a sentire i poeti, ci fu un passaparola. Dopo due giorni erano migliaia. Oggi si direbbe “un evento di successo”. Il grande pubblico che ascolta i poeti eccc. Come è noto la storia è più tragicomica e i filmati sono lì a documentarlo. La storia della poesia italiana si presenta anche essa la prima volta in forma tragica, nel 1975, con l’assassinio di Pasolini, e la seconda volta in forma grottesca, nel 1979 con Castelporziano. L’era di Castelporziano arriva dopo il 1976-77, anno in cui aumenta di molto l’ingresso all’Università, la prima vera stagione del compimento dell’istruzione di massa voluta dalle riforme degli anni 60. Era molto per i numeri ancora bassi dell’Italia, ma assumiamo da lì a poco la struttura di altri “mercati della cultura”, pian piano si inaugurava la divaricazione tra la letteratura che piace ai “competenti” e quella che leggono i “leggenti” istruiti, acquirenti di libri, in cerca di un prodotto medio. Si allargava l’istruzione pubblica, si prendevano più lauree, ma terminava una società 8/900 identificabile in classi, si avviava verso una società di massa, più osmotica dal punto di vista dell’immaginario e dei consumi culturali. (Ricordiamo però che siamo ancora oggi nel 2019, il paese con meno lettori (39%) assoluti e il paese con meno lauree in Europa e in generale se vogliamo ancora farlo sopravvivere nel sistema occidentale.).
4) Quando inizia ad allargarsi la platea dei leggenti?
Dopo il ’68, col balzo nel 1980. Si possono leggere per “casi” editoriali. Due grandi casi in epoche di “allargamento della platea dei leggenti”: immediato post ‘68, Porci con le Ali, oggi dimenticato se non per una storia del costume, e La Storia, di Morante, nel 1974 stroncato all’epoca dai più, oggi un grande classico. Ma siamo ancora dentro un pubblico che legge, inizia a leggere appena scolarizzato, sia per “dovere” politico – legge o almeno compra il libro e dà un’occhiata – ma sostanzialmente, fino a prima della metà anni 70 all’università andavano pochi figli di classi di lavoratori subalterni. C’era molta borghesia, come hanno stimato gli storici il 68 lo hanno “fatto” 300 mila giovani unaminoranza demograficamente parlando. Nel 1980, dopo un anno da Castelporziano l’Italia ha scavalcato i movimenti giovanili del 77 che sono invece il primo segno di allargamento culturale reale, dei ragazzini che nati a metà anni 50 hanno frequentato la scuola dell’obbligo e puntano al “pezzo di carta”. Di conseguenza, l’Italia conosce un “allargamento della platea dei leggenti” sotto la spinta di un innalzamento del livello di istruzione. C’erano stati già segnali prima, con la mondadori e gli Oscar in edicola, negli anni 60, e l’editoria ialiana si era già modernizzata, anche se non mancano errori (Mondadori rifiuta di pubblicare Wilbur Smith, Stephen King per dire) ma è in attesa del suo pubblico, che sboccia invece con la Collana harmony nel 1980 e con il primo bestseller di un’editoria rinnovata (non dimentichiamo che Berlusconi sta per fare il suo ingresso) con cui l’industria editoriale mostra il suo volto di oggi, pochi anni prima della saldatura “televisiva”. Era Il Nome della Rosa, non a caso scritto da un esponente a suo modo del gruppo ‘63 come Eco, che cercava la sua strada per conciliare la letteratura di genere e quella alta. Però è già in atto una divaricazione e non è detto che anche un laureato in lettere abbia voglia (e dico io magari sappia) leggere, in quegli anni la poesia di Pagliarani o Sereni. E infatti, nel frattempo la poesia – che pure ha in quegli anni momenti alti, di partecipazione – nasce la rivista Poesia di Crocetti, che va in edicola e arriva a toccare le 55.000 copie mensili, c’è ancora Milanopesia e i festival di Roma ecc. – ci si avvia alla progressiva riduzione dl lettori paragonati al numero dei “leggenti” perché il famoso pubblico potenziale che accorre a migliaia agli eventi (appunto come a da Castelporziano in poi, oggi cliccando sui social mi piace) poi si guarda bene dal comprare o dal leggere poesia (ne sono stato testimone per alcuni anni con un fenomeno che si chiamava “Parole Note” posso assicurarvi che persone che accorrono a sentire leggere un buon/bel lettore poesie di Neruda e si commuovono poi neppure Neruda comprano, figuriamoci altri – e così oggi ancora un poeta riesce a vendere anche 2000 copie, come Baudelaire ma dopo un secolo in Europa è cambiato tutto. E in Italia ancora di più, paese che ha varato tardi la riforma della scuola dell’obbligo nel 1963, dopo dieci anni dal varo della Tv pubblica nel 1954 – dove Eco era parte, tra l’altro – paese che sconta anche una sostanziale assenza di quella diffusa società borghese più forte in Francia Gran Bretagna Germania ecc. e ancora oggi il nostro pubblico ha una debolezza strutturale, data anche dalla scuola che in tutto questo per la poesia ha fatto poco, in 40 anni.
5) Come si inserisce in questo contesto una possibile discussione intorno al tema tra “forma” e “anti-forma” oggi?
6) Relativismo e consenso del pubblico: quale il rapporto? Siamo ancora schiavi della “casalinga di Voghera”?