© Fotografia di Dino Ignani

Gloxa I: Sulla poetica di Giuseppe Conte

A cura di Lucrezia Lombardo

“Un tempo c’erano mandorli, foreste e cattedrali”

Ascoltando la poesia di Giuseppe Conte 

 

Se c’è un poeta capace di unire mistica e ragione, quello è Giuseppe Conte. Il suo stile riesce infatti a tessere immagini in grado di penetrare il sentire, restituendolo all’originaria bellezza. Come al momento della creazione, la natura si fa strada nei versi dell’autore mediante la semplice forma di un mandorlo che, nella propria fioritura, incarna l’amore e l’impazienza meglio di quanto riesca a dirci qualsiasi teoria filosofica. La poetica di Conte è dunque “una poetica della carne”, che intende fenomenologicamente ritornare alle cose per come esse sono, ricollocando l’uomo, con le sue contraddizioni, all’interno di un cosmo che pulsa.

È incredibile la maestria con cui l’autore riesce a trascendere il linguaggio pur impiegandolo e così a far vivere le immagini che crea. Nella lirica “Chiedi a un mandorlo”, egli scrive infatti:

“Chiedi a un mandorlo a marzo
al rosa titubante del pescheto.
Chiedi a una nuvola dell’alba.
Chiedi a un torrente che irrompe nel greto,
Chiedilo a tutti i fichi degli orti
quando i rami contorti e spogli
cominciano a formicolare
di germogli
chiedi a loro…”

Come si mostra chiaramente, la strofa varca ogni confine linguistico per trasferirsi nell’esistenza al pari di certe massime zen, il cui scopo è quello di generare dei paradossi che spingano il lettore a guardare alla concretezza pratica, cercando in sé le risposte. Tale invito alla pratica non è tuttavia da intendersi come “un mero volgersi all’insieme dei bisogni o dei doveri”, bensì come un invito a cogliere il miracolo che si manifesta nell’esistenza, allorché la poesia ritrova in essa un proprio ruolo. Un ruolo che si nutre della meraviglia e che sa trarne nutrimento. Questa restituzione della vita alla vita, è proprio ciò che la poesia di Conte riesce ad innescare, consentendo di sentire il profumo della fioritura e di toccare il colore acceso della natura, a chi nei versi s’imbatte. Ma la ricerca dell’autore non si arresta al motivo zen-naturalistico e prosegue, facendosi analisi esistenziale e sociale. Non mancano difatti, nella vasta produzione dello scrittore, testi di “poesia civile” come  “Partigiano della pace”, che è uno straziante affresco della brutalità della guerra e della sua assurdità, in quanto piaga che ferisce la natura umana, allorché essa perde la consapevolezza del proprio legame con quella parte sacra che in tutto dimora e che il nostro presente brutale amputa.

E proprio la speranza che la poesia torni in qualche modo a rendersi udibile e a riempire la terra delle sue visioni di foreste, anime e cattedrali, costituisce un altro dei temi fondamentali nella poetica di Conte, autore nei cui versi emerge una profonda spiritualità, che nulla ha che vedere con i dogmi o i formalismi, bensì con un francescanesimo compassionevole, che sa ridestare l’uomo dall’oblio di sé e del mondo. Eppure, Conte è anche poeta dell’infanzia e cantore “dell’umanità così com’era” prima che la tecnica contaminasse il Creato, amputandolo dell’anima e accecando gli individui di egoismo. Come scrive l’autore nella lirica “Un giorno se mi leggerà il lettore”:

“Un giorno se mi leggerà il lettore del
terzo millennio, saprà che c’erano gli
alberi e i desideri, le palme e i pini, e gli
eucalipti dalle foglie a quarto di luna, e le
rose: chi non voleva più soffrire, e chi
voleva fare l’amore insieme per le strade e
chi donava se stesso, il sesso, i fiori e i
poemi: violenti e lontani per essere semplici e
deboli”.

Attraverso queste parole cariche di nostalgia, il linguaggio si fa così memoria, grido di addio a quel mondo vero che le generazioni di un tempo hanno conosciuto, mentre il presente mostra una chiara volontà di distruggere tutto ciò che appare improduttivo e  dunque inutile. E se la vita di una volta -la vita di carne- era senz’altro meno comoda di quella dei nostri giorni, essa era comunque il luogo in cui all’uomo era concesso di sostare, di sbagliare, di cambiare strada, di annusare il profumo puro dei fiori e di toccare le foglie e il loro spessore. A questo contatto vivo tra uomo e mondo si sostituisce adesso la virtualità, una dimensione solitaria e abissale, scissa e sorda, che nulla ha a che vedere con la poesia, poiché quest’ultima -come insegna Conte- è anzitutto amore per la vita. Un amore che si dà attraverso continui atti di coraggio, che rinnegano le vie di fuga e testimoniano l’urgenza di riscoprire ciò che davvero ha valore.

Lucrezia Lombardo

 

 

© Fotografia di Dino Ignani