Annalisa Rodeghiero, A oriente di qualsiasi origine, Arcipelago Itaca, 2021
Divisa in quattro sezioni, cui fanno da cornice due componimenti singoli a mo’ di prologo ed epilogo, quest’ultima opera di Annalisa Rodeghiero, come una sinfonia, introduce fin dall’inizio e sviluppa gradualmente due temi in contrappunto: quello di inizio e fine, e quello del rapporto fra tempo e discorso poetico, ossia anche tra vita e forma. I due temi si intrecciano in molti punti, diramandosi poi in sottotracce e armonici vari che includono il gioco arcaico dei quattro elementi, il rapporto fra anima e mondo, parole e cose, sonno e risveglio, memoria e oblio, nel segno di una ineludibile e accettata impermanenza che include un primitivo stupore: lo stupore muto dell’origine, la consapevolezza della penultima effabile fine. Sugli stupendi scenari dell’altopiano di Asiago, si alternano vedute verticali mozzafiato a giri d’orizzonte a passo lento andante, misurato dalla scansione dei versi che però subiscono degli improvvisi sussulti, quasi a voler sottolineare proprio il tema dell’impermanenza in una dizione che è peraltro fluida e dispiegata in volo, aerea e luminosa, esplicitamente lontana da qualsiasi ermetismo. Nel corso della lettura, saltano subito agli occhi i versi volutamente asincroni, spezzati, franti, come verticalmente caduti o orizzontalmente racchiusi in un fascio di luce: “Ascoltare anima indomita che incessante/ ritma/ in rima di voli in mezzo inverno/ e mai recede.” (28) Questa aritmia improvvisa del verso costituisce la cifra prosodica dell’intera raccolta, traducendosi infine in una sorta di sprezzatura metafisica, una ostentata disinvoltura del volo, della visione e del canto, ribadita dal tessuto iconico, a restituirci la cifra “rinascimentale” di questa poesia, il suo collocarsi a oriente di qualsiasi origine. Le quattro sezioni dischiarano ciascuna in esergo il proprio nume tutelare: rispettivamente Cvetaeva, Rilke, Brodsky e T.S. Eliot, ma a me pare che un referente principale della poesia di Rodeghiero, accanto a Rilke e a Eliot, rimanga qui come altrove Achmatova piuttosto che Cvetaeva, lo sguardo lungo e il controllo apollineo del verso della prima, piuttosto che l’immediatezza e l’abbandono dionisiaco della seconda.
Nella I Parte, l’esergo metafisico da Cvetaeva, che verte comunque sull’impersonalità della dizione poetica (“E senza anima, fuori dell’anima – ho forse bisogno di qualcosa io?”) apre poi sulla vista mozzafiato della prima lirica: un autentico mattino del mondo, dove la solidità della terra custodisce l’assoluzione dei sogni, consentendoci di levare gli occhi al cielo. Così l’appartenenza reciproca di anima e mondo comincia a prendere corpo, intrecciando i passi di una danza cadenzata, esatta, una sorta di minuetto su un tappeto vegetale, su “una corteccia d’aghi”, che custodisce l’humus sempre rinnovato dell’inizio. Così “Il profilo dorato dei rilievi” (15) funge da scenario di questa prima parte, disegnando nel contempo l’orizzonte degli eventi dell’intera raccolta.
La II Parte, si apre invece nel segno di Rilke, delle sue abissali Elegie Duinesi, dove si cerca proprio il nesso tra anima e natura. Così qui la prima lirica, bellissima, canta il sonno invernale dell’altipiano, circondato da un “silenzio innaturale” (33), “ridondante”, ricoperto da una neve immaginata. E rilkeiana davvero è la Stimmmung di questi versi che disegnano paesaggi dell’anima esplorando scenari naturali. Tra la semina e il germoglio, tra il buio e la luce c’è, nella natura come nel discorso, il verso giusto, “corretto”. (34) Così il tema del discorso poetico assume connotazioni naturalistiche, natura e cultura si incontrano in luoghi inattesi, in figure sorprendenti. Il travaglio del verso che prelude al germoglio, la sua correzione in corso d’opera, dall’intrigo delle radici allo splendore del frutto, richiama infatti l’intera parabola dell’invenzione rilkeiana, dal sordo travaglio delle Duinesi, al nitore miracoloso dei Sonetti a Orfeo. Due facce di una stessa medaglia: quella del comporre in poesia la fatica del concetto coi lacerti dell’immaginario onirico. Da ciò scaturisce lo stupore primigenio dell’alba, il thaumaston delle origini, terrore e meraviglia, quando i cicli della natura si trasformano negli adombramenti dell’anima: “Essendo presenti a tanto stupore, trattenere l’oro dell’alba/ sui boschi ancora neri del nord, nella ferita dei venti,/ delle radure il respiro – dei semi deposti dai merli./ Come torbiere custodire antiche memorie nel fondo./ Imparare dai campi riarsi, il sogno di neve. Cancellarsi come neve, come neve crearsi.” (35)
Tra memoria e desiderio, memoria e oblio, è tutta una fenomenologia della coscienza interna del tempo e dei suoi adombramenti che si squaderna sotto i nostri occhi, riflettendo l’insuperabile incompiutezza dell’esserci (40) e il perenne travaglio della parola tra sonno e risveglio, nell’evanescenza della visione, nella dissolvenza dell’ora. Tra auspicio del canto e nostalgia del futuro, con pazienza vegetale, con l’incrollabile fiducia di trovare il verso giusto delle parole-cose, la singolarità effimera e perfetta, il fiore raro, nella natura e nel discorso, la “rosa nera di Halfeti/ a rischio d’estinzione, seme di terra sacra/ origine di nuovi alfabeti. Parole senza sinonimi/ misura perfetta dell’incommensurabile.” (48)
La III parte, Nel silenzio delle rive, nonostante l’epigrafe da Josif Brodskij, si nutre chiaramente della riflessione eliotiana sul tempo e su quella coincidenza di inizio e fine, che costituisce anche il tema principale di questa nostra silloge. A partire dalle ricorrenti immagini della stagione anomala, (63) di quella “primavera di mezzo inverno” che nei Quattro Quartetti prelude agli incomparabili incroci di tempo e eternità evocati nell’ultimo, Little Gidding, dove domina l’inaudito auspicio che inizio e fine, flusso e forma facciano una sola cosa al termine dell’umano viaggio. Questa eco eliotiana verrà esplicitamente riconosciuta nella sezione finale, che si apre appunto con una epigrafe dai Quattro Quartetti (65). Ma già ora nella III, Nel silenzio delle rive, si fa strada il presentimento quieto della chiusura del ciclo, il tema del conclusivo ritorno all’origine, in una fitta gamma di variazioni (51-62)
La IV parte, Nel meridiano dell’indugio, si apre infatti nel segno della terra, intesa come ciò che ci ospita nel momento della resa dei conti, intrecciando radici e destino, assorbendo il fiume del tempo nello stagno di Narciso, dove si può annegare nel proprio riflesso o trasfigurarlo “in sciabordio di frasi” (67) E qui inizio e fine fanno cortocircuito, fino a contrarsi in un punto, nell’istante epifanico per cui vale la pena di esserci stati, dove “la rosa e il fuoco”, la forma e il lampo che la brucia, tempo ed eternità, vengono a coincidere nell’attimo della possibile redenzione. Il tema iconico-musicale del tempo ciclico, introdotto dall’inizio della silloge e svolto già mirabilmente nella sezione che precede, sia avvia ora alla sua conclusione, quando il ciclo si contrae in un punto denso e l’eterno ritorno dell’identico si trasforma in una singolare auspicabile metanoia.
A mio giudizio, se le due prime parti erano rispettivamente nel segno di Achmatova e di Rilke, le seconde due sono decisamente in quello di Eliot. Certo tutti modelli inarrivabili, ma qui espressamente, umilmente riconosciuti e assimilati, nonché mescolati a un altro grande filone della letteratura anglofona, quello della moderna poesia della natura, che ha come capostipite il Wordsworth del Prelude e si diffonde per tutto il Novecento nella poesia anglo americana, per esempio nelle mirabili liriche di Robert Frost, dove la descrizione dettagliata del paesaggio e il senso panico dell’esserci vengono spesso espressi nella dimensione della memoria, di quella “emozione rivissuta in tranquillità” (Wordsworth), che sfiora soltanto l’elegia per pervenire a una meditazione metafisica dell’essere al mondo. E anche qui, fatte le dovute differenze, la poesia della natura assume spesso connotazioni paniche, che però non rimangono mai fini a se stesse ma si compongono in una riflessione articolata sul senso della vita, sui limiti e sull’ambiguità della bellezza e dell’amore, per cui certo in questa raccolta se non anche altrove nell’opera di Rodeghiero, non mi pare si possa semplicemente, come pure è stato fatto, parlare di idillio o di elegia d’amore, quanto piuttosto di una meditazione appassionata e fiduciosa, pacata e intensa, ricchissima di variazioni e riprese, sull’essere nel tempo, sull’impermanenza della visione, sulla precarietà della vita in tutti i regni del creato, dalla chimica elementare all’alchimia poetica. Sicché alla fine forse il punto d’arrivo dell’intera vicenda, quando “il fuoco e la rosa sono uno” (T.S. Eliot) viene a coincidere con quello in cui si incontrano la parola e la cosa, nel miracolo di un verso riuscito.
Dalle vedute del Lake District di Wordsworth a quelle dello splendido altopiano di Asiago di Rodeghiero, attraverso le molteplici declinazioni della poesia del Novecento, la natura e l’anima trovano tutta una serie di convergenze in uno spazio curvo, non euclideo, dove la luce devia per attrazione gravitazionale, o talvolta si inabissa in buchi neri senza via d’uscita, talaltra deflagra in
esplosioni stellari che sempre ci sorprendono, a ogni nuovo risveglio nell’arco breve di questa nostra vita che è sogno, in vista della “penultima fine” (Giuliano Mesa), nel mai compiuto approssimarsi di una visione conclusiva: “Come cometa si frammenta/ un po’ alla volta l’ultima visione/ nei giorni di un’estate che si accorcia.” (74) Nel silenzio che ci attende, nel “fuoco sacro” (76) il cui irresistibile tiraggio d’aria forgia la Parola salvifica, trasformando nell’attimo il flusso entropico della vita nell’effimera compiutezza della forma. Con echi espliciti dei Quattro Quartetti: “qui ci sfiora l’orlo di fuoco/ aleggia la rosa.” (77) Nel luogo dove d’improvviso si è chiamati a spogliarsi di sé da dovunque mai si sia potuti partire: “Qui io sono, dove sono assenza e quiete,/ nel tempo eternamente presente/ giunta da dov’ero partita/ da dove non ero partita.” (78) In quel segno indicale che contiene tutti gli altrove, nella coincidenza suprema dell’effettuale e del possibile, della storia e della poesia. Dove l’inesistenza del tempo coincide con la sua implacabile presenza e il senso panico si trasforma in un esercizio spirituale, in una pacata composizione di luogo.
A cura di Giuseppe Martella
Annalisa Rodeghiero, nata ad Asiago vive a Padova dove si è laureata in Scienze Biologiche.
Ha pubblicato: Percorrimi tutta (2013), Di spalle al tempo (2015), Versodove (2017), Incipit (2019), A oriente di qualsiasi origine (2021) tutti premiati nell’ambito di concorsi letterari nazionali.
È collaboratrice del periodico online Alla volta di Leucade. Suoi testi poetici e note critiche appaiono in riviste, lit-blog e in numerose antologie tra cui: Il padre di Nazario Pardini (2016), Il segreto delle fragole 2018 Agenda Poetica (LietoColle), Lunario in versi (11 poeti italiani) iPoet 2018 di LietoColle, Antologia proustiana 2018: Cherchez la femme – di Aa Vv La Recherche.it, La madre Secondo Quaderno di poesia del Gruppo poeti UCAI (2019), Antologia proustiana Una notte magica di La Recherche (2019), Fra gli ultimi del mondo – Vol. 3 Dedicato alle ultime del mondo, Giovane Holden, 2020, Il dono del Logos Terzo Quaderno di poesia del Gruppo poeti UCAI, 2021 e in moltissime antologie legate a premi letterari.
Sue poesie e note critiche di testi sono contenute nel IV volume Lettura di testi di autori contemporanei curato da Nazario Pardini (2019).