Intervista ad Anna Maria Farabbi sul poema Abse (Il Ponte del sale, 2013),
a cura di Gisella Blanco.
La trama poetica e immaginifica del poema Abse, di Anna Maria Farabbi, si percorre tutta d’un fiato se ci si premunisce di una disposizione “all’ascolto senza distrazioni. Corpo a corpo”, come scrive la Poetessa sulla possibilità di comunicare attraverso la poesia, nella pre-istoria del poema che, per una visionaria avventura psichica, segue la trama dell’esplorazione di luoghi etici ed emozionali infilando “ogni filo creaturale” nella “cruna interiore” da cui fluisce la sua intuizione poetica.
Il lavoro di Anna Maria è dedicato a Tereska, bimba la cui “faccia brucia e nevica nello stesso tempo”, fotografata in un campo di concentramento mentre provava a disegnare la sua casa “dentro il nero di una lavagna”, in un centro psichiatrico polacco nel 1948. “Dov’è la mia casa nell’abse?” si domanda l’Autrice, all’inizio del viaggio attraverso una coscienza dilatata e rivoluzionaria che sonda paesi stranieri in cui individuarsi e imparare ad accogliersi sull’uscio della “porta senza porta”.
Anna Maria Farabbi è nata a Perugia nel ’59, è autrice di numerose opere poetiche, narrative e teatrali e ha una fortissima attitudine a scavare profondamente nell’identità femminile radicata in ogni cosa che esiste, mischiando l’italiano al dialetto come a voler completare un linguaggio emotivo prima che verbale.
“La prima porta” è il baluardo della resistenza al vento da parte del primo paese che incontra l’autrice. I “fondatori”, ci spiega l’autrice, scelgono con cura la disposizione di ogni elemento del villaggio. La prima casa è stata portata via dalle intemperie ma rimane la porta. Anna Maria, che è una femmina, a sua volta sceglie di chiedere permesso per entrare all’aria aperta di quella casa sventrata, il cui accesso sarebbe immediato se ci si dimenticasse della propria dicotomica natura di ospite all’interno dell’area metafisica dell’incontro con il sé che diventa, d’impulso, ogni altro pronome etico-personale. Ci racconta come si sente e cosa può fare una femmina che rivendica il diritto di poter essere (o rimanere) gentile nel suo varcare la soglia di una realtà sconosciuta e probabilmente ostile?
Ogni volta che Ulisse ha varcato la soglia di una creatura o di una comunità ha usato una capacità penetrante, una leva subdola scardinante, rovesciante. Ne è uscito sempre arricchito da un punto di vista materiale. Incontaminato, nel suo non nome, e nel suo camaleontico camuffamento. La sua scaltrezza non riconosce rispetto per l’altrui identità né radici etiche o spirituali. La sua gentilezza di approccio è una mitezza incendiaria, distruttiva. Ulisse incarna il simbolo occidentale dell’intelligenza. In realtà siamo di fronte al vettore esemplare di una patriarcalità dominante e usurpante che usa la gentilezza. E’ una figura convessa, senza ascolto, senza dialogo profondo.
La mia via è altra: vive la gentilezza come rispetto del mio io profondo, talmente profondo che si innesta con le geologie del noi, del minerale, con il vegetale dell’orto, del giardino, dell’incolto, con maestri e maestre attraverso il presente delle loro opere.
La mia gentilezza è esercizio di flessione umile e consapevole, non sentimentale, ma concreta per tessere l’incontro, soprattutto con creature sfregiate dalla società, con gli ultimi. Così come vengono definiti. Con loro tesso un baratto intimo. Un ponte sacro: politico e poetico. Una possibilità di maggiore crescita. O segnare invece, con maturità elaborata, una distanza: con Creonte che si manifesta ogni volta con una diversa maschera. Mi assumo con responsabilità ogni conseguenza. Non praticando invasione né evasione. Essere gentile consapevolmente è una sapienza. Il mio io femmina è piantato in terra, respira. Con passione, rigore, con tenacia ostinata innamorata.
“(…) Venticinque giugno ore diciannove/la parola sul pavimento dell’arca”. Mentre ci sono lontane genti che vivono “con la miccia accesa in/corpo”, Lei pesta e prega “lavorando la parola responsabile”. Chi lavora la parola ha una grande responsabilità, verso se stesso e verso ogni altra creatura. Se la parola lavorata, oltre a essere atto di grande responsabilità, tendesse a essere responsabile, come potrebbe distinguersi dal mero arbitrio? Ci può essere una comune parola responsabile (che responsabilizza) o non è più possibile sfuggire al relativismo valoriale?
La lingua è organica. La parola è organica. Io mi assumo la responsabilità della sua scelta nominandola, portandola tra le dita, tra le labbra, cantandola. La sua vitalità espressiva apre interpretazioni. La mia responsabilità sta appunto nella conoscenza del corpo semantico, nel lavorare la lingua, inanellarla in una struttura sintattica e ritmica in grado di potenziarla e acuirla in precisione. Poi scoccarla aperta nell’aperto. All’aperto di tutto e di tutti. Non so rispondere alle ultime due domande. Mi concentro ogni giorno nel mio possibile. Pratico le sostanze, il pane in cui credo: la via del poco, dentro cui politica mistica poesia è la stessa cosa. Non è un caso che la mia opera poetica inedita, di prossima pubblicazione, si intitoli così.
“(…) Ho passato il confine da bambina/perché la mia famiglia non era casa né cuore/ non ha scolpito le linee del mio palmo (…)/ma oltre te/ umilmente amore mi coniuga a tutto/ togliendo all’io l’io”. A un poeta non si domanda mai dei fatti e degli antefatti che stanno alla base esperienziale della sua produzione poetica ma quanto è rilevante, per Lei, la finzione poetica per superare il limite verista della propria esistenza e arrivare a significati che vanno oltre la visuale dell’autore stesso? Fino a che punto il poeta può essere un fingitore?
Canto ciò che ho vissuto esperito elaborato ruminato. Non metto virgola perché sono verbi dentro la stessa corrente, non ammettono marcatura, separazione, intervallo. Io sono pane al pane e vino al vino è ancora un’altra opera di prossima pubblicazione per ALIUD. Anche questo titolo mi ritrae.
Le Sue poesie in dialetto sono come uno stream of consciousness in cui non è rilevante conoscere il significato esatto di ogni termine ma ci si fa avvolgere dal suono evocatorio della parola che, nell’incertezza del significante, conduce all’intuizione della nostra innata attitudine divinatoria che, spesso, rinneghiamo per il terrore di vedere le cose senza l’ascolto degli occhi. “(…) i so solo nfilo femmina ntlabse/ntra che ltempo lvento me magna e msona”: come resiste “nfilo femmina” alle intemperie di questo ostile e ipovedente quotidiano, soprattutto quando ci si è sentiti di “essere niente/ e in nessun luogo” ma la forza creativa che divampa tra “la matita il quaderno e la lingua” dimostra come assenza e presenza siano necessarie espressioni di un preciso io umano e poetico?
Il mio filo femmina è quello del rammendo o della cucitura o della tessitura. E’ il filo del fuso. E’ il filo del canto. E’ il filo del tuorlo un attimo prima di essere amalgamato con la farina. E’ il filo che esce dal ventre per compiere la tela. Quella di Penelope per intenderci, quella visibile solo in controluce o perlinato da rugiada. Filare quotidianamente nella resistenza.
Aggiungo. La poesia, il canto, per me, il filo dura 24 ore al giorno. Non si tratta solo di carta e matita.
Questo Suo poema è il percorso attraverso un villaggio metafisico che, dalla prima porta, passa per la bottega dell’acqua, l’osteria, la piazza, la biblioteca, l’asilo e vari altri elementi dell’architettura esistenziale umana per culminare nel mistero del cimitero a cui segue la cerimonia dell’equinozio di primavera con i bambini che “scoperchiano l’erba”. Uscita dal paese, nella “cultura orale” di un suono ancestrale e appena nato, accenna alla possibilità di comunicare “di popolo in popolo, di paese in paese” e riporta, per concludere, un Suo testo, scritto a mano, in cui giunge all’allegria “attraversando ad occhi aperti la propria madre”. Torna il tema dell’importanza del ritorno alle origini femminili per arrivare a una forma compiutamente femmina. Qual è il Suo augurio per il viaggio di paese in paese di ogni figlia femmina e di ogni figlio di una donna?
Per crescere interiormente ho dovuto imparare mia madre. Quella donna assassinata dalla società patriarcale che, per automatismi, inconsapevolmente, mi assassinava giorno per giorno. Ho cominciato il gesto e la parola con lei. Comprendendo. Meditando. Leggendola non giudicandola. Aiutandola amorevolmente con affacci che fessuravano la sua tomba patriarcale. Oltrepassando il mio dolore e il suo. Emancipandoci dal nostro personale io… andando all’aperto. Crescendo insieme. Aggiungendoci alla storia delle donne, quasi sempre anonima.
L’augurio è quello di leggere e meditare sempre la scrittura del proprio corpo: l’ombelico è il nostro segno condiviso con poveri e ricchi colti analfabeti gialli rossi maschi e femmine… È la nostra filialità mammifera incisa dalla vita: la nostra responsabilità, la nostra eredità nei confronti dei secoli, dei millenni precedenti, verso il futuro. Il significato che ci è stato elargito da maestre e maestri. L’ombelico ci indica la nostra fratellanza e sorellanza, l’inevitabilità della nostra complementarità e solidarietà. Il solo viaggio è questo. Questo è l’augurio: esserne consapevoli.