Alma Spina è nata a Savona nel 1991. Si è laureata in Letterature moderne e spettacolo all’Università di Genova, città dove vive e lavora. È attivista femminista e lesbica. Fa parte dell’Associazione culturale Alle Ortiche con la quale collabora per la rigenerazione urbana e culturale di una parte dell’ex vivaio comunale di Genova e per la quale cura la rassegna di poesia performativa Rapsodie. Nel 2018 pubblica la sua prima raccolta poetica, Rovi (Eretica edizioni). Insieme al musicista Stefano Gualtieri porta avanti un progetto di ricerca intorno alla poesia orale e performativa. Sue poesie sono apparse su Atelier, Settepiani, Neutopia – Rivista Del Possibile, Rapsomag.
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Abbiamo spento le luci, abbiamo detto tutto.
Migrando di spazio in spazio distrattamente
le mani protese hanno cercato di toccare una porta
trovando al suo posto una parete di vite americana.
Cammino vicino a un bar. Non sento cosa si dicono
le persone sedute: è tutto un bisbigliare.
In vico Tana era rimasto un cane vecchio.
Il piscio ricadeva in gocce sulla parietaria.
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Mi guardo spesso e molto fissamente
farmi altro – altra da me stessa.
E ogni qual volta accade penso:
oggi non tornerò più a casa.
Ma poi ritorno ed è una metamorfosi –
sto nelle pietre, nel posto dei duri
prima che vengano, lente, le morbidezze.
Tocca impastarsi come il pane.
Tocca stare a cullarsi un po’.
Mi prendo da dentro la bocca la guancia
con le dita: mi stringo in un abbraccio piccolo.
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Mentirei se ti dicessi che sono normale:
ho, infatti, un molare superiore a cinque cuspidi.
Una cosa rara. L’igienista dentale
col suo occhio di luce mi chiede:
«Posso fotografarlo? Guardi che pago».
Non resta che un diniego per preservarmi
in qualche modo. Ma quello
ci rimane molto male: si aspettava,
penso, che abboccassi.
Quando usciamo
infilo un dito nella bocca e mi tocco:
ho i denti crepati sgraziati montagne
mi sanguina la lingua se ci passo.
E poi succede che lo trovo e premo
il polpastrello in tutti i punti.
Si crea un improbabile entusiasmo
una scoperta evidentissima di me
e avviene tutta una muta delle penne.
*
Ho testa braccia pancia vulva gambe piedi.
Ho tantissime cose attaccate.
Il colore della pelle light rose.
Sollevo in aria una mano:
ha cinque dita e unghie mangiate.
Ho sognato una volta che un tale
con gran disinvoltura srotolava
i sette metri che mi stanno in pancia
e con un righello mi diceva:
è lungo trenta metri.
Vederlo tutto lungo lì disteso
mi scuote il corpo e la mente.
/
Non si dice – non si dice!
Ma cosa? l’intestino!
Ma tu lo sai che è lungo sette metri?
Cinque virgola trentasei
metri più di me e ci sta.
Pensaci.
*
Riempio una ciotola della mia saliva
e la guardo.
Prima era in bocca; non so se in cima
o in fondo alla bocca. Lì
non mi è dato vedere.
Ora che galleggia in questa ciotola
coi miei mortali occhi la vedo:
e lei è già morta.