Leggere questo “Diario di un autodidatta”, il nuovo libro di Alfonso Guida finalista al Premio Strega 2025, è come risalire una frana testuale e insieme è tuffo e immersione nel vissuto di un poeta, i cui testi però non si dovrebbero interpretare, come per tutti, in quanto estensione o sintomo di una biografia. Diventa però inevitabile, quando è lo stesso poeta riempire di biografemi, sintomi, dolori, sofferenze e incontri, i suoi testi, facendone materia sfidante con cui costruire – ma dopo, a tavolino, “accucciato in un limite breve” quale è la posa sulla pagina – la struttura della sua lirica, in cui deliberatamente la parola gioca a confondersi come una prassi parallela alla vita, fatta “attingendo a un gergo di smarrimento ereditato”(p.11). La tradizione viva e recente è questo gergo, un proliferare di tracce linguistiche.
Allo stesso tempo, però, declinando anche una densità di fatti, nomi, travagli, sofferenze, gioie della reale biografia (per quello che esplicitamente un autore lascia trapelare come narrazione di sé, sempre col dubbio che sia verissima finzione) ecco che accade anche l’inverso: è la vita come prassi parallela modellata dall’unica verità che conta , quella della pagina scritta.
Guida nato nel 1973 a San Mauro Forte dove ancora vive, è poeta che ha un lungo percorso di oltre vent’anni di poesia, voce tra le più interessanti, originali, tra i poeti delle generazioni di mezzo, anche se non ha più molto senso fare classificazioni di questo tipo.
In questo libro, più che in altri, anche frammenti di quel percorso, fatto di incontri, maestri, compagni di strada, luoghi, diventano la mappa biografica per la narrazione teatralizzata in versi, un “confessionale” (p.18) esplicitato dallo stesso poeta.
Centrale è però sempre il nucleo della provenienza, il buco nero del mondo familiare e di quella scena primaria – usando la formula di Melanie Klein – che tanto ha dominato i versi di Guida, tra sincerità e “rifugio in un grembo immaginario” da cui ogni spinta esplosiva non fa che riportarlo alle figure dominanti e ricorrenti: un padre e una madre, i loro condizionamenti, prima che i flash memoriali riportino di nuovo verso l’esterno, al paese, ai dottori, alle cliniche, a Roma, alle esperienze del sesso occasionale e amoroso, ai poeti amici e maestri. Guida scalpella “nell’interstizio” di vite altrui. Il tempo del diario è una macchina barocca di attimi. Quanto più l’abisso è dichiarato, tanto più è inessenziale: “nessun precipizio è terra d’approdo/Dura quanto un infarto l’imminenza” scrive in una poesia intitolata “Novecento immagini sonore”. Biografismo esibito dunque – la narrativa del nostro tempo è alle prese con la questione “autofiction” ma la lirica ne pratica da sempre una più complessa articolazione in cui la norma poetica della tradizione di fa ab-norme.
Ha un versificare compatto, in lunghe lasse di metri quasi sempre regolari, principalmente endecasillabi. Infatti a Guida non interessa sconvolgere le macro-forme, le strutture della poesia, anzi si attesta in questo suo modulo rassicurante, quasi stabilizzatore, che tende a seguire la struttura morfologica dei “quadernetti” nei quali – secondo la testimonianza di Maria Grazia Calandrone introducendo Il dono dell’occhio (Poesis, 2010) – Guida riversa la sua poesia col corpo piegato sulla pagina (“Scrivevo i primi versi, rannicchiato/ nella voce che mi parlava dentro”, p.85).
Ciò che a Guida interessa, dentro questa produzione di strofe uniche, tendenzialmente lunghe e regolari, è invece la proliferazione di immagini, metafore, l’invenzione linguistica, gli ossimori e le assonanze, il vocabolo raro come quello colloquiale, immergendosi nella lingua che pratica una polifonia, un pluristilismo pulsante, con la quale il poeta lucano rende manifesta la sua tensione nevrotica ossessiva di raggiungere il fondo, l’origine, e insieme praticare quella che Calandrone ha chiamato “liturgia della parola” (con quel fondo originario come divinità in ombra). Continuo è il duplice movimento: di proliferazione dissipativa, una germinazione verbale, di ablativi assoluti e scarti logici, con tutto l’armamentario della “immagine poetica” ereditata dal ‘900, ma tenuta dentro un suo ordine, in questo scrivere-sempre, dando vita negli anni a una galassia poetica, in cui non sono mancati componimenti meno luminosi, cadute, ripetizioni, ma complessivamente è proprio questa energia creativa che imprime il suo timbro e lascia una scia che lo qualificano sicuro poeta.
Movimenti sintattici e accostamenti secondo un metodo che cerca, attraverso la proliferazione di razzi metaforici, di centrare la verità (ma quale?) dando vita a composizioni pieni di “pieghe barocche” per usare l’immagine di Deleuze, con figure condensate di rivelazione psicologica in una contrattura iper-metaforica. “Fai di ogni parola un mucchio d’ossa”. Contano questi sacri mucchi verbali, da espressionista irregolare, messi come archeologia di una vittima sacrificata, che è sempre l’Io-poeta-bambino. Da Corazzini a Salvia, da Pasolini a Bellezza, Alfonso Guida è però attento ad assorbire anche la lezione di Amelia Rosselli, più di altri (per altro citata col suo “Diario ottuso”, p.83) nel fare dell’imperfezione un metodo, uno spiraglio.
Contano in Guida le ore, rispetto agli anni, lo splendore dei frammenti di tempo che non stanno in una trama e in un ordine teleologico, ma quasi come appunti disordinati, perché “ la memoria trascura le ore sottratte a ogni morte futura”. Così l’autobiografia diventa “ininterrotta” come la poesia praticata da Guida, prolifico nei titoli come nelle metafore, che invece sembra più apprendere dalla lezione del surrealismo morbido della rivoluzione permanente della lingua, tra Char e Eluard. Guida dice la dissipazione della caduta di un Io, ma procede all’insù, nell’esercizio di equilibrio metaforico continuo e nella misura del versificare. In ogni metafora, ossimoro, in ogni accostamento sorprendente, ritmo, endecasillabo eccedente, sta quel grumo centripeto di lessico aggrumato per cercarvi in esso, nella sua manque, un’origine: “mi sono ricacciato dentro il grembo di un mondo immaginario per restare vivo”, insomma l’autobiolgia . Da giudici il suffissoide porta più alla biopolitica di Foucault la forma dell’autoaffermazione lirica è più nel sintomo metonimico. Liturgia consapevole di nevrosi e fallimenti come nel cercarsi “avverato solo nel possesso dei corpi”. A suo modo rinnova l’indovinello veronese in chiave erotica, è la mano che produce nella masturbazione scrittoria il nero seme-semiotico, che feconda sé stesso, il maschio-femmina personaggio poetico che qui dice Io, nato da schiuma di continua polluzione metaforica. Ma pure nel “Diario” emerge qualcosa di nuovo rispetto a tutti gli anni di inferenza da ferita: un bisogno dichiarato di “racconto nudo” nel farsi nuovo e che “ammucchi gli anni del giorno dopo”.
Il “diario “dunque è dell’autodidatta, nel senso: il finalmente autonomo. Diario del radicalmente nato-da-sé poeta, figura che emancipa e libera il figlio, anche se materialmente il figlio resta radicato nel paese, chiuso in casa o in clinica.
In attesa della nudità, Guida rievoca e dissemina ancora una volta la ricca fenomenologia della sua solitudine affollata. Luoghi, Incontri, compagni di strada, maestri. Se questo è il diario di chi è “ridotto a sopravvivere” pure si compone di memorie souvenir, che quasi precipitano sul foglio: Ecco in “Onirmanzie” gli eventi storici di questi suoi anni di formazione (tra cui le Brigate Rosse o la Guerra in Libano, la legge sull’Aborto, o Basaglia) come un “coacervo vettoriale” che causa un “inceppo”, un “trauma” che sembra collegato a queste vicende collettive (“per la prima volta entrai in un’epoca”) ma in realtà questo ipertrofico Io si accorge “di far parte di una storia/ quando la casa si riempì del vagito/ di mio fratello”, dunque sempre nel cerchio magico e infernale della famiglia.
E’ la presenza dell’Altro, ancora una volta è l’infra-psichico a dominare. Un “altro” reale o fantasma, potrebbe essere anche, come scrive dopo, “il trauma del Doppio” qualcosa che comunque mina l’assolutismo sovrano di questo Io, e il suo poetico ipseismo.
Frasi irrelate, accostamenti di simbolismi, a volte senza una coerente tessitura dei rimandi, aprono come nello stile di sempre per Guida a continue schegge di senso, schegge poetiche di bellezza immaginativa, che ha bisogno di rinnovarsi continuamente, verso dopo verso, per nascondere il grande vuoto, il precipizio. Infatti hanno come contraltare il pericolo vero: il silenzio”, quello di “bambino incolpato” – come scrive in “Un lontano raggiunto” (p.55) a cui si giustappone in modo asindetico, un “donna colpevole/di aver amato col suo sesso androgino/ l’interno del suo seme”.
Di chi sia questo “corpo scenico” femminile/maschile che si sdoppia teatralmente nel vortice della macchina barocca (come la “Donna sporca”) dei testi di Guida, conta poco: è tutto un gioco di rimandi tra esorbitate presenza di sé e voragine di questo “Censimento dei vuoti” come è il titolo della bella sezione centrale del libro, in cui ogni testo ha come titolo vie di una Roma familiare al poeta). Il vuoto è sempre un rischio, perché riapre una “manque” in noi, e ha come risultato il fatto che, di questo Doppio, non rimane che un Nessuno, se non fosse per quello che pure occupa tutto lo spazio, Io-su-carta, “l’oziosa oscenità mentale di essere/ sfidante assente al gioco degli appelli”.
Guida sa d’essere un alunno estroso e geniale, ma pure ribelle e disobbediente della poesia, che elegge a maestrìa, ma volutamente e per istinto, porta “fuori traccia, il tema svolto” (p.51). Nell’eccesso sta scavando il suo personale vagito. È il suo “digging” per dirla in inglese con la parola emblema di Seamus Haney, il suo zappare, in una terra di contadini ma pure di poeti.
Fondamentale è l’apprendistato del sesso e la costruzione di un’identità sessuale, a formare un’autofecondazione del Narciso. Da un lato subendo, però, drammi tra abusi e colpe nel pervertito presepe familiare ( madre “botte in testa”, “padre, “esecutore” e “picchiatore seriale”) dall’altra cercando il gesto della “perversione analfabeta” che si tramuta in “sterco” se diventa “vizio della relazione” . Perché si replicava nel sesso occasionale, anche in quell’ “amarvi uno a uno, al buio” (un testo chiave, p.51), l’amore primario del bambino, segnato da tanta oppressione e insieme mancanza. L’evoluzione del vizio dell’amore ha bisogno di una ricerca di “origini” dello stesso, come “canto del mondo”. Ma intanto si pratica “l’eros metropolitano”, come nella poesia di esibizione così intitolata, con l’acqua scaldata nel pentolino “per lavarti il mucchietto/ sporco di altre penetrazioni” (p.56) con un gesto finale di connessione al materno.
Sono molte le connessioni a questo materno-femminile, in cui ci si riflette come identità e battaglia, desiderio e maledizione, nel gioco catulliano-freudiano: “ti odio amando lo specchio che mi hai tolto”. Guardare con centripeta condensa a questa “origine” come autodidatta, creato da sé, non generato da nessuno, ha come deriva-conseguenza il presente continuo di dissipazione sparsi nel libro. Come gli accenti dandy, dannunziani e pop degli “hatù per terra, Alcyone a letto” mentre ascolta “nelle orecchie perdere l’amore” (di Massimo Ranieri). UN fotogramma fine anni ’80 – quelli del coevo Almodovar (del resto citato in una poesia) – ovvero “gli anni di piombo del travestimento”. Una novità, certo, ma senza dimenticare l’eterno-Penna appreso in contemporanea nel percorso di formazione letteraria, di cui c’è l’eco nella “certezza che sarei stato amato/nei cinema porno, negli orinatoi” come scrive con acuta consapevolezza in “Regolamento Isidu” (p.60). La poesia di Guida è costruita sulla stratificazione, in fondo è tanto vita bruciante quanto pure è citazione di vite bruciate.
Tutto si deve scrivere perché tutto è già scritto, allora si esagera, si scrive del cazzo/sporco di feci”, provocazione dell’ “alunno del fuori traccia” e si “brinda al fallimento del destino”. Tutta un’ennesima autofiction, la dannazione del dualismo maledetto e santo , il “mettere in mostra il mostro” il “Cristo ermafrodita”. Oppure ritratti caravaggeschi – come quello di Giacomino – del disordine nella sezione dei “Destini occasionali” (che suona come il contrario dei fortiniani “destini generali” per l’impolitico Guida) che sono il vissuto senza storia di questo Io-poetico che riattraversa il tempo vissuto per uscirne (è in fondo il sogno di una guarigione).
“Diario di un autodidatta” sembra l’approdo di una vita, ma anche di una coscienza del suo tempo, quello che porta Guida a chiudere tutto questo caotico vissuto sulla possibilità, al contrario, di poter praticare un “racconto nudo”, come si diceva sopra. Un racconto spogliato di tutte le stratificazioni pure esibite.
L’ultima sezione “Testimonianze affrettate” è forse per questo quella stilisticamente più narrativa (con sprazzi di realismo fluo come “La zia di Milano” p.81 ) dove il tasso di proliferazione metaforica si riduce, se pure per flash, il diario si fa più disteso: “La strada non c’era, ma ho cominciato/presto a camminare”. Nuovo cammino, dopo tutto quello che è accaduto, trascritto anche in questo diario, e nuovo afflato: “chi resta rinasce”. Ancora una volta è nel passaggio della scena primaria che ha esaurito la sua spinta: “succede al figlio, se muore/ la madre. Guarisce dal male, smette di urlare”. Al di là delle connessioni biografiche di cui si diceva, la tensione al narrare è omologa a quella di “andare lontano”, ormai dismessa “l’ossessione trinitaria dell’uno” (p.95). Nei testi finali, che chiudono con una lettera, questo io ipertrofico della carta, la “figura di troppi lati”, si allontana, in un conquistato silenzio. Sebbene continui, ininterrotto, dentro questo “Io” che chiude con questa immagine il libro, un incessante “scavo muto di una pioggia riflessiva”.
* * *
UN LONTANO RAGGIUNTO
Di notte, scrivo, accucciato in un limite
breve. Brindo a un finale aconflittuale.
Setaccio in bocca lingue di congiura.
Dove si affanna, ferma, una bandiera
slabbrata, smunta, di misericordia
mista a un trillo convulso di giustizia,
lì, mi areno, perdo le prime mosse
dell’alba contro il buio persistente
dell’estrema notte tarda a passare,
foresta smidollata, arnia fluitata.
Discorre, abbassa il mento, il mio silenzio
bambino incolpato, donna colpevole
di aver amato col suo sesso androgino
l’interno del suo seme, il sacramento
della sua discendenza. Donna sporca
di barocco miasma incestuoso frutto
del suo organo dimezzato, compiuto
L’essente esibito in un corpo scenico
l’oziosa oscenità mentale di essere
sfidante assente al gioco degli appelli.
*
REGOLAMENTO ISIDU
Non si disprezza il mondo che accanto alita.
silenzio crudo e bello, sesso sadico.
c
Custode – blu di un deserto scortato.
Traduco: giovane uomo biondo in guardia.
La mensa, tonno su carta da forno.
Celle, atleti olimpionici. Affari esteri.
Gli hatù per terra. Alcyone a letto. In bagno,
nelle orecchie Perdere l’amore. Erano
gli anni di piombo del travestimento.
L’entusiasmo frizzante della giovane
verità era tutto. Carta vincente.
Non sai ciò che di te lasci accadere.
Questa che chiamano incoscienza è luce,
libera contro tutto, bianca infanzia.
L’istinto fu mettere in mostra il mostro.
Giano bifronte, Cristo ermafrodita.
Vergogna e verità, etimo comune.
Ci si vergogna di una verità.
Gogna di una verità è la vergogna.
La maglietta celeste, gli occhi neri
di Antonio di Porto Cesareo, il cazzo
sporco di feci, il bacio sui testicoli.
La dismisura – terrazza – conifere.
La porta rotta del bagno. La doccia
disinfettata con la candeggina.
Le prime spole. Spine di elemosine.
Costava troppo traghettarmi intorno.
Dunque, mi sto accorgendo stamattina.
Fu come se me lo avessero detto.
Schiavizzato sulla via del ritorno.
Sono tornato indietro troppo presto.
L’impazienza è l’origine del male.
Dunque mi sto accorgendo, stamattina.
Dunque essendo alunno dei fuori traccia
rovesciai tutto il futuro del calice,
brindando al fallimento del destino,
stella implosa, luce senza cammino.
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No no Alessandra, Barbara Mecucci.
Storia medievale letteratura0
moderna e contemporanea, Ferroni,
Pedullà. Il seminario su Leopardi,
quello su Gadda. Lotte disertate.
L’amore contattato per biglietti,
lettere. Primi amori rifiutati.
La certezza che sarei stato amato
nei cinema porno, negli orinatoi.
Questioni razziali. Di appartenenza.
L’Indiarsi delle pulsioni di morte.
Dunque, nient’altro. Un primo cielo scosso
dall’attonito brivido di un treno.
*
DIARIO DI UN AUTODIDATTA
La strada non c’era, ma ho cominciato
presto a camminare. Non c’era niente.
Solo un vuoto orrido da cui pendevo.
Questo sentirmi attinto da un coltello.
Mi sono svenato del dolore
solenne che colpisce le corolle
delle dalie. Mi sono innamorato
della visione delle mandrie sparse
nel deserto a Occidente. Ho amato i carri
con le iene imbacuccate, mute, subdole,
la mia foresta di equiseti arvensi
sotto le mura di cinta del vecchio
paese, un nugolo di case vuote
prese in affitto da cornacchie e taccole.
Chi muore perde potere. Chi resta
rinasce. Succede al figlio, se muore
la madre. Guarisce dal male. Smette
di urlare. Si interrompe il capogiro
degli emisferi cerebrali. Smette
l’eco di sfracellarsi contro i fianchi
della montagna interna, che proclama
la vendetta del pifferaio magico.
Questo diceva la zia, inzavorrata
dalle abiure del secolo dei lumi.
Non c’è che parsimonia
nell’annuncio dell’alba.
La strada ora si scioglie,
bianca. Le donne sputano
la pioggia riflessiva
di una giornata amara.
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Alfonso Guida (1973) è nato e vive a San Mauro Forte, in Lucania. Nel 1998 ha vinto il Premio Dario Bellezza per l’opera prima con la raccolta Il sogno, la follia, l’altra morte. Nel 2002 ha vinto il Premio Montale con la plaquette Le spoglie divise [Quindici stanze per Rocco Scotellaro]. Tra i suoi libri ricordiamo Irpinia (Poiesis, 2012), Ad ogni passo del sempre (Aragno, 2013), Conversari (Round midnight edizioni, 2021).
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© Fotografia di Dino Ignani.