Alessandra Corbetta, Estate corsara, puntoacapo Editrice, 2022: recensione di Giuseppe Martella
Quest’ultima silloge di Alessandra Corbetta tratta di un passaggio generazionale e pertanto si può leggere come un romanzo di formazione in versi, ancorché di una specie piuttosto rara, dal momento che si caratterizza per la sua forma spaziale, dove a ogni evento e a ogni incontro corrisponde un luogo o addirittura una città ben precisa.
Infatti, specialmente nella II parte, “Durante”, essa appare come una topografia del vissuto, nelle sue tre dimensioni della memoria, della percezione e dell’attesa. (“tutto in attesa, come se qualcosa/ potesse davvero accadere”: 17) Anzi, scomodando una difficile nozione geometrica, si potrebbe più precisamente parlare di una topologia dell’esserci, cioè di quella serie di trasformazioni di una figura nello spazio, senza strappi o sovrapposizioni, che qui equivarrebbero a una serie di reticenze o di contraffazioni dell’accaduto, contrari alla dichiarata schiettezza poetica di Alessandra, che adesso più ancora che nella raccolta precedente abbraccia “il partito preso delle cose” (Francis Ponge) donandoci una fenomenologia dell’accadere, trasportata però in uno spazio complesso di cui bisognerà chiarire le coordinate. Ricordo che nella mia lettura di Corpo della gioventù sottolineavo la necessità di una scelta di fondo da parte dell’autrice tra due dimensioni che coesistevano allora abbastanza confuse: quella della tradizione letteraria e quella intermediale, e che specialmente coglievo nella contrapposizione di due scene salienti: da una parte l’evocazione della “Donatella” di Milo de Angelis e dall’altra quella della volgare padrona di una sala giochi: la scarna, atemporale, stilizzata bellezza del gesto atletico da un lato, e dall’altro il ritratto a tutto tondo della deformità caleidoscopica del mondo avvenire. Ora la nostra poeta, avendo intanto acquisito sia la necessaria distanza critica dagli eventi che la competenza tecnica per esprimerla, ha scelto di collocare i propri transiti o riti di passaggio in questo nuovo iperspazio che si presenta da un lato con i connotati della durée bergsoniana ma dall’altro anche e soprattutto come il presente allargato del metaverso digitale dove ci troviamo immersi sempre, anche quando viaggiamo freneticamente per il mondo reale da una stazione all’altra, impegnati nelle nostra nostre attività quotidiane.
La precisione estrema con cui Alessandra Corbetta insiste su date e luoghi di questi suoi transiti e incontri dimostra proprio la volontà di fondere lo spazio fisico e quello intermediale in una sorta di realtà aumentata, dove la precisione dei tratti di strada e di quelli di penna fa tutt’uno, a testimonianza di una cura lungamente esercitata sia nell’ordine della memoria che nella messa a punto dell’atto poetico.
L’economia della scrittura, la scansione ritmica precisa ed essenziale, l’assoluta assenza di ridondanza figurativa, tranne in qualche raro scorcio surreale, conferiscono ora al segno della poeta uno spessore e un rilievo che ne fanno di volta in volta l’equivalente del suprematismo dinamico di un Malevich o delle silhouette corposamente bidimensionali di un Giacometti. Questo per trovare dei punti di riferimento nell’arte del Novecento dal momento che l’autrice, per sua stessa ammissione, non riconosce dei maestri letterari, fatta eccezione forse per l’amatissimo Umberto Fiori che d’altronde, oltre a essere un poeta, è un cantautore. Ecco, è in questa dimensione interdisciplinare e intermediale che bisogna collocare l’opera di Corbetta se si vuole intenderne il senso e il valore complessivi. Nella pur nutrita e spesso eccellente ricezione critica di Estate Corsara, a quanto mi consta, rilievi di questo tipo mancano però quasi del tutto, sicché le azzeccate annotazioni su questo o quell’aspetto del testo rimangono per così dire occasionali e per certi versi applicabili a qualsiasi altro documento della diaristica poetica del Novecento.
Ciò che ho osservato esige comunque qualche rilievo ulteriore sullo stile di scrittura della nostra poeta, che si può definire “cinematografico” in senso lato (tale cioè da comprendere l’infografica, il trailer, il videoclip, ecc.), ossia basato sulla tecnica del ritaglio e del montaggio di istantanee che, come quelle degli esordi della fotografia, sembrano rappresentare la scena di un delitto, cioè di un evento destinale e irreversibile . Tali fotogrammi custodiscono il nucleo della struttura de L’Estate corsara, nelle sue tre fasi, Prima, Durante, e Dopo, in quanto contengono le tre dimensioni del tempo: Chronos, Kairos e Aiòn, quello lineare e misurabile, l’attimo unico e irrevocabile della scelta, e infine l’epoca individuale o storica che da esso consegue.
Un altro rilievo di ordine strutturale si impone e riguarda la funzione meta-poetica delle due sezioni in una prosa elegante e perspicua che aprono la II e la III parte della silloge: in esse, fra altre preziose indicazioni, si potranno trovare fra le righe alcuni dei cenni al piano dell’opera che ho cercato di chiarire: “Smontare la realtà come fosse una parola, decostruirla” (29); senza lasciare traccia dileguarsi. Scegliere di vivere è non averti mai incontrato. (55)
Infine è da mettere in evidenza il trattamento della scrittura come differenza, traccia e supplemento di esperienze evanescenti che pure hanno marchiato a fuoco il carattere dell’io poetico e dei suoi comprimari, nonché gli intrecci multipli delle loro relazioni potenziali e attuali Sì che la fermezza del tratto (Be-Zug: stacco, relazione, tratteggio, ritratto, contratto), che per Heidegger costituisce la scaturigine del testo poetico, esibita dall’autrice nelle varie incursioni di questa Estate Corsara testimonia di una sua netta maturazione po-etica. Tratto di strada e tratto di penna insomma in una certa misura idealmente coincidono nel definire quella che ho chiamato la topologia del vissuto.
A questo proposito vale la pena soffermarsi sulla trasformazione del tratto di strada in tratta ferroviaria, (71-74) con un preciso punto di arrivo e l’obbligo di obliterare i biglietti acquistati. In questa minima flessione semantica del termine è raccolto infatti l’intero processo di maturazione dell’io poetico e della sua generazione. Non è un caso infatti che l’autrice ci offra una serie dettagliata di queste tratte destinali.
Così questo romanzo di formazione iperletterario si svolge fra la persistenza della memoria e la lusinga del desiderio, in una sorta di rêverie costellata di immagini color seppia che hanno la patina del déja vu, in una serie di varchi tra evento, ricordo e attesa, riti di iniziazione e sacrifici espiatori, immagini rivissute che nel ricordo si rivelano talvolta grottesche o ridimensionate, (57) fra esperienza ed esperimento, perché sia chiaro che in questo percorso di maturazione il controllo prende il sopravvento sull’abbandono anche là dove la tenerezza di un amore o il dolore di un addio rischiano di insidiare la determinazione della protagonista, che comunque infine appare dichiarata senza possibilità di fraintendimenti: “C’è da ricostruire il luogo/ del patto che è stato/ violato. E perdonare, l’estate”…Chi resta vince. Chi resta sopravvive / e traduce la memoria.” (85) La scelta etica è un presupposto imprescindibile di ogni testimonianza poetica.
Così Walter Benjamin, nella sua Breve storia della fotografia, (1931) si esprimeva a proposito delle foto di Atget, uno dei primi maestri di questo nuovo genere artistico.
Vedi per esempio l’esergo da Umberto Fiori all’ultima sezione: “E ti sento mancare/ così profondamente/ che non so/ nemmeno più cos’eri.” (53)