Ángela Garcìa, Io sono la vertigine, (La Vencedora, 2021) – Traduzione di Stefano Strazzabosco – Nota di Maurizio Casagrande 

A cura di Maurizio Casagrande

 

La silloge della poetessa colombiana, in cui confluiscono testi inediti e liriche già incluse in precedenti raccolte edite in Colombia, Messico e Svezia, potrebbe far pensare di primo acchito all’ennesima forma di erotismo al femminile coniugata in modalità sudamericane in distici come i seguenti: “Ricordo le sue dita che suonavano invisibili / l’arborescenza astratta in mezzo alle mie cosce, // che arpeggiavano l’enigma sinfonico del sangue / il corpo tutto crespe e a grappolo” (Il pianista, pp. 34-35); tale dimensione in effetti esiste nei suoi versi, anche in misura rilevante, se vogliamo, e tuttavia non è la più pronunciata e nemmeno si può considerarla la chiave dell’intera raccolta.

Sono altre, infatti, a nostro avviso, le pietre di volta di questa architettura, vale a dire il silenzio, presenza/assenza che opera da basso continuo dall’inizio alla fine alla pari del suo naturale corrispettivo, l’ascolto, in aggiunta alla musica con la sua ritmica, alla danza e all’incanto rispetto alla forza vitale della natura che s’impone negli ultimi componimenti ispirati alle piante, o in quelli iniziali dedicati ai frutti, nell’aspirazione a fondersi con essa in luce e, appunto, danza: “Voglio essere casa del silenzio / Scenario della sua danza // Nel mio corpo la sua gemma // Il suo volo di campane / Fino a che le mie mani siano pomi / E la mia voce lampada” (Voglio essere casa del silenzio, pp. 6-7); e ancora, più avanti: “Arrivo all’alba in mezzo alla rugiada // Scivolo lungo la foglia / che trema / nel primo azzurro // Vivo la resina del verbo / dolce solletico / Gli uccelli mi bevono / fra i canti // Sono il filo che burla / il labirinto” (Aria, pp. 50-51)..

E la parola, ovviamente, una parola che si protende sciolta da ogni vincolo, senza per questo cadere prigioniera dell’arbitrio né tantomeno delle pulsioni degli istinti, frutto piuttosto di assiduo lavoro sulla lingua, di fatica, ma con la medesima consistenza dei sogni: “Che possa scegliere il trotto soave / Del sangue / Non il galoppo allucinato / Che brucia vene e arterie // Che le mie parole siano essenza / Sudore che lucida il volto / Il più bel sogno […]” (Che la mia lingua non sia il lacchè, pp. 4-5), in una pulsione all’oltre che non può essere mai disgiunta dalla vera poesia: “Ogni anfora spande / ciò che non può più contenere” (Indovinello, pp. 35-36).

E andrà segnalata, a tale proposito, l’originale definizione della parola, che poi è l’essenza stessa dell’umano: “Voce che insegue la fuggente fiamma / tra questa veglia e il sonno” (Parola, pp. 20-21). Con l’avvertenza, però, che il rapporto con la lingua resta sempre conflittuale, nella stessa misura della relazione tra l’io e il mondo, inteso come l’altro o lo straniero: “L’idioma mi respinge. / La lingua vuole pensarmi. / Non ho parole mie per il vuoto // […] // Di qua e di là m’accompagnano e m’assediano / l’intimo e il forestiero” (Il proprio e l’altrui, pp. 38-39).

Sembra quasi che sia proprio nell’alveo della natura che la Garcìa ci indica il segreto della conciliazione con noi stessi e col tutto: “C’è in me ciò che è senza ragioni, / non ho altro tema che il restare in piedi. / Sono lo stesso in me il crescere e il cantare, / la stessa quiete rinverdire o screziarmi di bioccoli. // Sono ciò che dovevo, senza alternative. / Sarò domani e il giorno dopo, ancora / se il giro di morte di un suo prossimo / non s’interpone” (Parla l’albero I, pp. 56-57). E nel seguito: “La mia questione è l’aria. // Dal ventre comune ho ereditato l’unica dottrina: / linfa che sale e sgorga. / È il verde la mia ode ai soli tiepidi / e rivela fermezza in tempi bui” (Parla l’albero II, pp. 58-59).

L’apertura all’ambiente e ai vegetali, tuttavia, non esclude pari attenzioni alla storia e ai luoghi della vita associata. Ne fanno fede le liriche Urbe (Città, pp. 40-41) e, soprattutto, Venecia (Venezia, pp. 70-71), dominata non a caso, piuttosto che da suggestioni visive (anche se pure qui la luce e i colori giocano un ruolo rilevante), da quelle sonore e, una volta di più, dal silenzio: “Lei lasciò che la storia si sommasse / fino a spellare la nozione di sé stessi, / e dolcemente grave la voce le fece / assaggiare il silenzio”.

Che il testo in oggetto assolva ad una funzione particolare lo attesta la sua stessa collocazione in chiusura di silloge, mandando in frantumi l’icona romantica di una città/cartolina per proporcene una più autentica con la sostanza dell’aria e delle acque, assai prossima cioé all’essenza che le avevano attribuito in passato poeti veneti come Carlo Della Corte e Diego Valeri, oppure il russo Brodskij.

Altrettanto vale per quell’evento che ha sconvolto l’esistenza di tutti noi negli ultimi anni, con un’implicita allusione, in chiave antifrastica, al Libro degli abbracci di Eduardo Galeano: “è l’anno di un editto contro gli abbracci, / la sua scrittura invisibile inonda gli alveoli // […] // La primavera non lo sa, arriva anche quest’anno / col suo idromele e il carnevale di colori” (Veduta in Maggio, pp. 68-69).

 

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Ángela García (Colombia, 1957), co-fondatrice del Festival Internacional de Poesía di Medellín, ha girato il documentario sulla poesia svedese Tres preguntas y un poema, dirige “El día mundial de la poesía” di Malmö, dove vive, ed è membro del Centro degli Scrittori della Svezia meridionale. Come traduttrice ha curato vari volumi, tra i quali: Proyectos para un cielo nuevo. Poesía Nórdica Contemporánea (2011); M. William-Olsson, En stad utan murar (2012); L. Söderberg, Lo
Inconstante (2013); Bruno K. Öijer, Mientras el veneno actúa (2019). Tra i suoi libri di poesia, ricordiamo: Entre leño y llama (1993); Rostro de Agua (1997); Farallón Constelado / Sternige Klippe (ediz. bilingue spagnolo/tedesco, 2003); De la fugacidad / Om flyktigheten (ediz. bilingue spagnolo/svedese, 2005); Todo lo que amo nace continuamente (2010); Retablos del movimiento (2013); Apuntes para el ejecutante (2014); Och vi reser oss i den nya dagen (2018); Kropp framför spegeln (2019): Duologos (2020).

 

Maurizio Casagrande (Padova, 1961) insegna lettere presso un liceo del padovano. Per le edizioni Il Ponte del Sale ha pubblicato, oltre a un volume di interviste a 20 poeti italiani (2006), le raccolte in dialetto Sofegòn carogna (2011) e Dàssea nare (2019). Del 2015 sono la silloge Pa’ vèrghine ave e la plaquette Soto ‘a nogara, ma fora stajòn; del 2018 In sènare, del 2020 Co ‘a scùria. Ha curato le antologie In classe, con i poeti (2014) e, con Matteo Vercesi, Un altro Veneto. Poeti in dialetto fra Novecento e Duemila (2014). Collabora occasionalmente con le riviste «Letteratura e dialetti», «Il Ponte Rosso», «Verifiche», «Humanitas», «La Terrazza», «La Battana» e «Filigrane».

 

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