Su “RadioGrafie” di Giulio Maffii (Il Convivio Editore, 2022)
A cura di Gisella Blanco
Nella polisemia dei lessemi componenti la parola “RadioGrafie”, titolo dell’ultima fatica letteraria di Giulio Maffii (Il Convivio Editore 2022), la presenza di nomi composti sancisce una scomposizione semantico-gnostica rivelata esplicitamente solo alla fine, all’interno di una nota esplicativa che entra a far parte del testo poetico. Il titolo stesso suggerisce la vocazione alla riunione delle singole unità di significazione in reciproche congestioni di senso, o in una molteplicità di sensi differenti, divergenti e indicativi di come il linguaggio crei reticoli di significati plurimi e tra loro diversificati (“A.M.: ante meridiem/ante mortem/nella radio ‘modulazione di ampiezza’”).
“Rive(l)azioni” è la prima sezione che, con “Rive A.M.” – nelle varie accezioni appena citate – inizia un monologo di cose non fatte, non dette, non possedute, e che definiscono, nella negazione, un rapporto interpersonale. “Perché non me lo hai detto?”.
Da questa domanda (retorica?) sgorga una lunga serie anaforica di “che”, “come se fosse una catena di montaggio” innescata nella dicotomia tra percezioni effimere come “il senso del respiro”, e intenti vanamente programmatici come “dividere il giorno”.
Nella ricerca dell’origine, scaturita dalla necessità di trovare spiegazione alle occorrenze esistenziali contemporanee, si parte dal concetto di “odore” che è un’altra percezione effimera e contestualizzata in un determinato tempo e in un determinato spazio: “che cercare l’origine del nostro odore/di arancia selvatica messo dentro altre ore”.
“<De>rive interne” è la successiva sezione che si ispira alla parola frammentata e ricomposta nel segno, nel suono e nella funzione di modello ermeneutico intertestuale.
La poesia sperimentale di Giulio Maffii non abbandona la melodia delle concatenazioni logico-concettuali pur spezzando il discorso nella sua prosodia e nella sua semiotica. È un nascondino di sensi, di impercettibili combaciamenti tra il detto e il non detto, tra l’enunciato, il soggetto poetante e il lettore: “che ogni gesto casuale/abbatte la possibilità di ricordare/colloca la polvere sul comodino”.
Continuano a succedersi – nel senso che si susseguono e che si lasciano accadere – locuzioni oscillanti tra l’assertività e il dubbio che si rincorrono in una consecutio narrativa o pacatamente suggestiva dell’esperienza quotidiana. Ecco che la metafora pervade l’oggettualità (anch’essa non assoluta ma acutamente probante), il simbolo denuda il dettame realistico e mostra l’audacia della fallibilità umana: “(tutti si ritrovano ad indossare/la faccia dell’errore o del catasto d’amore)”. L’assenza di punteggiatura e la ricorrenza di elementi tipografici come le parentesi imprime un impatto visivo al discorso poetico privo di altre cesure ortografiche.
I piccoli gesti di tutti i giorni sono la migliore espressione di quei movimenti psichici ed etici che smuovono e sommuovono la vita individuale. La resistenza, oggi, è una faccenda privata, intimistica, forse persino egoistica ma, essendo pur sempre una forma di sopravvivenza etica, partecipa dell’estensione alla vita sociale.
“Le azioni estreme” hanno inizio con il presunto bagaglio etico che ogni morto offre al suo dio: si tratta di tutti i piccoli fallimenti e di tutti i piccoli cedimenti quotidiani di cui ciascuno ha esperienza. Il dramma, in questi testi, è rarefatto, si percepisce alla fine di ogni verso, in quel vuoto di parole che appare incolmabile.
Nonostante la sua vocazione sperimentate, una netta tensione lirica (che non cede mai al dettato lirico vero e proprio) affiora dalle poesie di Maffii, per lo più isostrofiche all’interno di uno stesso testo ma sempre libere di articolarsi in monoversi, decentramenti dei versi e varie altre articolazioni all’interno dello spazio dato.
“Che il campo di concentramento è quasi terminato” sembra voler presagire la fine di un tormento ma è solo una provocazione, un monito, una falsa profezia a cui consegue la caduta nella modernità (e, forse, della modernità stessa): “la pelle si stacca coi codici/cabala e accessori inutili”.
Dalla riflessione sulle azioni macroscopiche, estroflesse verso l’esterno, si passa all’indagine su quelle minime, impercettibili, microscopico-cellulari. Proprio nella cellula avviene quella trasformazione funesta che è la metastasi “-proprio il significato di riproduzione-“. Appare subito chiaro come ciò sia collegato al linguaggio – del corpo, della vocalizzazione, dei gesti, dell’assenza – e si ripercuota dalla parola al resto della realtà fisica: “è l’arsenico in forma di parola/che sempre ci devasta”.
Un ritratto feroce e, insieme, compassionevole risulta alla fine, non a caso, di queste azioni microscopiche. La vita prosegue “in semitono tendente alla minima” (ancora l’unità di misura più verosimile è la minimalità, una piccolezza priva, però, di sfumature dispregiative). Esce il freddo dalle serre, dal posto dove l’uomo coltiva in vitro le cose che gli servono, dove le protegge dal mondo di fuori, deturpandone la loro naturalezza e la loro esistenza nel tempo. È da lì che esce il freddo, proprio da lì dove anche il clima è pensato per la sopravvivenza. “Mi nascondo per fare a meno di me” è una confessione ben consapevole dell’inefficacia della serra e, insieme, di come l’uomo non sappia difendersi dal sé: “quale passo? Quale nicchia chiudere?/mi nascondo per fare a meno di me”.
La metafora dell’acqua ispira la sezione seguente, poiché “uno squarcio dal petto/rovescia le gocce trattenute dal calamo”.
Scrivere, anche se poi non se ne conserva memoria, è forse una richiesta di aiuto, di perdono (a sé stessi), di salvezza? Eppure, è proprio la pietà che fa “uscire/la morte dai polsi dai nodi dalle mammelle” e, forse, in fondo, è ciò che serve al poeta per disseppellirsi dal rigore del quotidiano.
Successivamente a una ricognizione alquanto desolante della condizione umana (“che ci nutriamo di una sola certezza/-non so quale-“), si torna a parlare d’amore, anche se è l’ultima volta, o si fa finta che lo sia. È un amore simile a “una stoviglia/sporca da lavare”, proprio perché “l’usura nei sentimenti non è consentita”. Un dardo che non viene lanciato è l’atto di cura che si compie per “non colpire l’altro”, prima che sia troppo tardi per salvarsi (insieme).
Nella parte finale dell’opera, il silenzio, come “moneta corrente”, palesa “i drammi inconcludenti del perdono” in cui si cade parlando di “un amore morto”.
Si alternano concetti come il tempo, la consolazione, il “dolore da cose minime”, l’eterno ritorno delle situazioni, degli errori, delle ricorrenze: il ritmo dei versi si fa incalzante, estenuato nella progressione delle immagini, nell’ innervazione del corpo lessicale. Ricorre, ancora, l’odore come correlazione oggettiva, come suggestione e ingranaggio gnoseologico. Un rimema incorporato in uno stesso verso interrompe le locuzioni a cascata e sancisce uno strappo emotivo attraverso una sinestesia immaginifica di grande spessore evocativo.
Il cinismo affiora per essere subito messo in discussione, smosso da un fervore esistenziale drammatico quanto vitalistico.
Gli accostamenti semantici determinano un preciso rituale ricognitivo-evocativo che si muove per micro proiezioni visive o acutamente orfiche. La parola è centellinata ma non risulta mai troppo assottigliata, non è vittima del dispotismo della reductio ma se ne serve per estromettere l’inessenziale in favore della complessità.
Dopo le strofe grafiche di “Sequenze per sbagliare il bersaglio” (Pietre Vive editore 2021), la poesia di Maffii affida unicamente alla parola la ricerca di quella possibilità di sopravvivenza -“la sopravvivenza è casuale” – che dall’evenienza della contemporaneità conduce alla necessità dell’amore, della resistenza etica, della poiesi stessa con cui dire ciò che, altrimenti, andrebbe disperso in ogni quotidiano abuso (o disuso) della lingua.
che cos’è la sopravvivenza?
un elenco una tavola pitagorica
fare la verticale
dentro abiti usati
cercare un volto uno scoglio
– o non cedere allo sconto
nel centro commerciale –
[la sopravvivenza è casuale]
*
che dare il cibo al gatto
è compito seriale
che il rovescio nudo delle scale
è punto di appoggio e di sutura
che le case emanano odore
di lampade votive
ti piovo ti spiovo e dopo di nuovo
muovo l’odore dentro lo specchio
*
che c’è un dardo all’ora del passo
che nessuno di noi scocca
(per non colpire l’altro
la filigrana d’aria che si arrocca)
Tra i lavori di Giulio Maffii ricordiamo: il saggio breve “Le mucche non leggono Montale” (2013), “Misinabì” (2014) poemetto basato sui miti della morte degli Indios Taino, il saggio “L’Io cantore e narrante dagli aedi ai poeti domenicali: orazion picciola sulla parabola dell’epos” (2014), “Il ballo delle riluttanti” (2015), “Giusto un tarlo sulla trave” (2016) e “Angina d’amour” (2018)). Nel 2020 ha pubblicato per l’“Archivio per l’antropologia e l’etnologia”: “Con i piedi in avanti: la lunga passeggiata di anthropos e thanatos tra poesia e vizi simili”. Nel 2021 il suo ultimo lavoro di poesia visuale edito per Pietre Vive editore “Sequenze per sbagliare il bersaglio”. Scrive e collabora con la Compagnia teatrale Bubamara Teatro. Fa parte dell’associazione Pallaio per gli studi antropologici e multidisciplinari di Firenze. È docente di storia contemporanea presso il corso di laurea in Scienze giuridiche della sicurezza.