Silvio Raffo
Il taccuino del recluso
Interno Poesia, Roma, 2021
pp.104 – €.13,00
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Il termine taccuino sta a indicare un libriccino per appunti. L’etimologia del vocabolo è di origine araba, mediata dal latino, e può riferirsi all’almanacco o anche a un supporto che contiene una “disposizione ordinata” di note. Non possiamo, dunque, prescindere da questa osservazione quando ci sprofondiamo nella lettura di Il taccuino del recluso di Silvio Raffo, edito dalla casa editrice Interno Poesia (Roma, 2021 – pp.104). Di più: il titolo stesso anticipa uno dei temi fondamentali che animano l’intera raccolta: il Tempo. Più esattamente lo scorrere ordinato delle ore e dei giorni, in un continuum ininterrotto che si riflette nella successione incalzante delle poesie, brevi e folgoranti, costituite da quartine dal ritmo sinuoso, dalla musicalità spiccata, come è nelle corde di quel “poeta dal bel canto” che è appunto Raffo. Il termine taccuino indica anche, in qualche modo, lo spazio bianco da vergare con la propria scrittura, l’origine che può avere sì una connotazione esistenziale (in questo caso ricollegabile alla dimensione spazio- temporale) ma può anche coincidere con il punto di partenza più propriamente creativo, artistico e del fare poetico.
Non è pertanto un caso che Il taccuino del recluso viaggi sulla scia di alcuni precedenti letterari di grande rilevanza, il primo semplicemente sottinteso nel richiamo all’ungarettiano “Il taccuino del vecchio”, il secondo, invece, esplicitamente citato in apertura di silloge dove appunto leggiamo il riferimento al libello di Catullo: “Il mio taccuino ha i bordi levigati/come il libello di Catullo netti./Con cura annoto i versi appena nati/sulla pagina, belli e benedetti.”.
L’altro termine che completa il titolo, specificandone ulteriormente sostanza e contenuti, è rappresentato dalla parola “recluso”. Il “taccuino del recluso” è, dunque, lo strumento attraverso cui il poeta, con la sua sensibilità proiettata verso il trascendente, forza l’isolamento sociale (del tutto contingente, in quanto legato alla stretta attualità dell’emergenza sanitaria in corso) ed esistenziale, raccogliendo il mondo in sé, ovverosia riplasmandolo all’esterno attraverso la propria arte creatrice con l’ausilio della memoria. Che ci sia anche un’azione di raccoglimento religioso, del resto, è suggerito dal sottotitolo che è (e non per caso) “La veglia del novizio”, e che propone una chiave di lettura alternativa e al contempo complementare al titolo principale. Ritroviamo, insomma, i temi cari a Silvio Raffo: l’idea concreta del tempo che comprime e incatena l’individuo in una dimensione limitante e limitata, il contrapposto slancio al superamento di quegli stessi limiti fisici attraverso la Poesia, la memoria che offre slancio vitale agli episodi passati (presentificandoli e dunque consacrandoli a una nuova giovinezza), infine l’Eternità, intesa però come mantenimento in perpetuum della consapevolezza dell’esperienza terrena contro il suo dissolvimento in un respiro universale, unico e indistinto.
La figura del recluso è, del resto, immediatamente percepibile nella quartina inziale dove viene presentata l’immagine del novizio che comprime e concentra la sua vitalità in gesti esteriori misurati e in respiri dosati, all’interno di uno spazio esiguo, per proiettarsi in una dimensione spaziale più ampia (“Come novizio nell’angusta cella/ogni gesto misuro, ogni respiro./A tratti sogno, spasimo, deliro./Scelgo in cielo la più remota stella”, p.19). Ma anche quando la condizione di prigionia non è esplicitata, questa ricorre altrove in negativo: “Non è più tempo a scandire i minuti;/ senza peso o volume, imbavagliati-/ da un sottile capestro strangolati/in baratri silenti e assoluti.” (p.26); oppure più avanti “Trasumanare è l’unica avventura-/annullare del corpo ogni barriera -/ del tempo valicare la frontiera./ Questa è dell’Infinito la misura.” (p.34).
Uno dei concetti più volte ricorrenti in questo libro è, dunque, l’élan al superamento della scansione temporale, avvertita come totalmente arbitraria e costituita da un inanellamento continuo di attimi. Come può avvenire, dunque, questa eternizzazione del tempo? Per il novizio o recluso significa affinare i sensi, misurare i gesti fino ad estenderli all’infinito, coltivare un rituale e una disciplina che permettano alla spirito di prescindere dalla storia individuale e dal mondo concreto considerati appunto come mera cronaca della concatenazione di fatti quotidiani.
Insomma, attraverso un’interiorizzazione dell’esistenza che permetta una ek-stasis, cioè un riposizionamento della coscienza al di fuori della dimensione storica. A questo scopo il libro appare come una sequenza di visioni, atmosfere oniriche, quasi irreali – così che la poesia possa farsi canto atemporale, sempre in bilico fra tragicità ed ironia: “esoterico tempo che nascondi/in aenigmate la tua identità -/ ti svelerai neo gorghi più profondi/al varco della sola Verità.” (p.43) o anche “Moltiplicare i giorni dell’attesa/nella certezza di un’estrema festa./ Eterno si fa il tempo, e l’ardua impresa/ si fa leggera. Gioia pura è questa.” (p.44) e ancora “Lo schianto giunge sordo, inavvertito -/folgore che scatena la tempesta,/palpito soffocato che s’arresta/ nel fluire di un tempo ormai impietrito” (p.47) e infine “Attento! la fantastica sventura/ si diverte soltanto ad annunciarsi./ È un falso allarme, sempre. Eterno dura/ l’inganno di epifaniche catarsi.” (p.22)
L’ironia la si avverte invece nella memoria, che attualizza situazioni passate rivalutandole attraverso un velo di maggiore consapevolezza, soprattutto con esperienze vagamente amorose: “eravamo felici, e non sapere/d’esserlo, ciechi e inquieti ci rendeva./ La coscienza imperfetta confondeva/ i sensi, e amareggiava ogni piacere.” (p.23) e “Era Amore quel futile delirio,/quell’ossessione ostile a ogni bellezza?/ Attingere la palma del martirio/ non si poteva a più sublime altezza?” (p.24)
Nonostante questo, il viaggio proposto da Il taccuino del recluso procede secondo sollecitazioni diverse perché, se è vero che risulta forte lo slancio verso il superamento della dimensione temporale o la presa di distanza -a volte paterna a volte ironica- dai fatti riportati alla luce dalla memoria, è altrettanto vero che la solitudine, la reclusione, la chiusura in se stessi porta necessariamente a un confronto con le proprie paure, i mostri interiori sovente richiamati attraverso figure della mitologia greca e della letteratura gotica. Così, capita di imbatterci, durante la lettura, in Megera o nella Medusa pietrificatrice, nel Minotauro, in Arianna e in Teseo oppure in Ligeia e Berenice, figure del mito ellenico, qui evocate in quanto personaggi di tenebrosi racconti di Edgar Allan Poe, così come Morella.
Alla spinta della reclusione come tentativo (con esiti incerti) di interiorizzazione del mondo e di eternizzazione del tempo, corrisponde dunque un movimento opposto, che tende a fare riemergere le paure inconsce, i dolori sepolti, gli abissi della psiche. Abbiamo pertanto accennato, da ultimo, ai mostri che affiorano alla superficie di alcune poesie a incarnare le inquietudini mai sopite, nonostante gli sforzi della volontà. E credo che in questa direzione vada a delinearsi il poemetto in quindici stanze, intitolato “Canti della clausura e del deserto”, inserito a conclusione del Taccuino del recluso quasi come una Nota a Margine, un monito che ricordi il calvario del Cristo- espressamente citato, nella sua natura di Uomo sofferente – ma anche, implicitamente, il “poeta del bel canto” per eccellenza, Orfeo, capace con la sua voce suadente e ipnotica di spezzare le catene della morte ma pur sempre vittima finale delle proprie debolezze umane.
Alessio Vailati