Silvia Rosa
Tutta la terra che ci resta
Vydia Editore, 2022
Nota di Gisella Blanco
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Una trasfigurazione chirurgica e demiurgica delle caratteristiche di realismo contemporaneo e di concretezza tecnologica in metafore di categorie e comportamenti antropologici traspare immediatamente dalla lettura della silloge “Tutta la terra che ci resta” di Silvia Rosa, pubblicata da Vydia Editore nel 2021 e accompagnata dalla prefazione di Elio Grasso. D’altronde dal titolo stesso parte l’idea creativa – e non demolitiva- che accompagnerà l’intera opera. La mano solida, rivoluzionaria e macchinale della modernità opera una funzione di mutazione del reale e della sua percezione. La discromia della sorte biofisica – umana e non – abbaglia e atterrisce ma non stermina l’apertura istintiva a un possibilismo che si dimena tra il disfattismo della contingenza e la genialità della sopravvivenza: “Quale nugolo di apparenze scegliere prima della pioggia?”.
Le metafore ricorrono nella retorica motivazionale del verso, affiancandosi a similitudini e all’uso coerente e pervasivo del correlativo oggettivo: “i giorni scorrano in sequenze/come disposti su un rapido nastro/di montaggio, assomigliano a passi/impigliati a morte lungo confini sbiancati/di fresco, attraversamenti, svolte, traiettorie/di vento che portano in luoghi invisibili”.
Nella prima parte dei testi, il soggettivismo personificabile lascia il posto a scenari auto-esprimenti che sanciscono la centralità della percezione umana nell’inumanità del paesaggio trasudante di movimenti psichici. L’ambientazione è pacatamente catastrofica, come un’abitudine all’usura e alla artificialità che, però, non è assoluta ma convive con la comparsa di sintomi di umanità all’interno del meccanismo innaturale e artificioso del contesto che viene percepito e narrato. Finché una percezione sarà descrivibile, d’altronde, esisterà un soggetto percipiente, anche se è nascosto o completamente inglobato nella a-soggettività del mondo tecnologico e industriale: “un inferno di eternit e plastica,/un covo umido in cui svapora il tempo/lasciando esposta la nudità della perdita”.
La nominazione sostanziale e puntuale di elementi o fenomeni materici, la cui esperienza quotidiana abbozza una familiarità forzata con l’area umana, suggerisce l’inevitabile e reciproca interpolazione di tutti i piani dell’esistenza contemporanea. Il corpo è il tempio ove confluiscono le nuove credenze scientifiche e tecniche così che la coscienza, collegata a quel corpo, diventa un organismo che prende in prestito elementi bio-fisici ed elementi artificiali per modularsi nella nuova realtà e riformulare la realtà stessa: “Dove smettere il peso di gravità, accomodarlo/più nitido tra il guard-rail e la striscia/di case-fortezza? Come bucare la pellicola/dello schermo e respirare quest’aria di nuvole?”. Il quesito sulla possibilità e sulla modalità di esorbitare dal limite del dicibile e dello spiegabile per condursi a nuovi orizzonti ontologici diventa una recherche continua e instancabile che si compie attraverso la parola poetica.
Compare la riflessione sulla morte, sull’essenza di chi rimane in relazione al commiato e sull’indagine su un perdurante locus amoenus che sopravviva non solo alla degradabilità del corpo ma anche a quella del dato digitale. Spesso si assiste a una poesia che termina con una domanda, lasciando il dubbio che si tratti di un’esortazione al dubbio o di un’ammissione di voragine informativa. Probabilmente le due soluzioni coesistono nell’inconsolabile horror vacui di ogni civiltà, soprattutto di quelle positiviste.
Una lunga serie di immagini plastiche si susseguono in una allusione al senso interioristico della materia e alla sua trasposizione nella psiche, visuale sempre attiva ma non soggettivabile. La città sembra un bagaglio di dettagli e una musa sorvegliante di intuizioni, suggerisce strade di rumori e un’incessante moltiplicazione sinestetica di percezioni: “Certe mattine la città lancia un missile/di megapixel, i display allora si popolano/di istantanee in vari formati, per celebrare/l’epica della calca”. Attraverso l’erudizione della tecnica sarà possibile uscire fuori dalle rotaie della causalità biochimica affinché l’uomo sia capace di liberarsi da sé medesimo? Ancora un quesito attanaglia la specie dotata della capacità di creare opere a cui domandare del proprio destino, come si fa allo specchio.
Il sacro e l’esoterico si incontrano in una nuova figura salvatrice e rivelatrice – la Signora – che non resiste all’artificio del progresso, reiterando promesse antiche e riattualizzandole ciclicamente: “Dona speranza a chi attende, a distanza/di un metro, una voce, di sentire il calore/del fiato sul collo, fosse l’ultima volta/o la prima”.Un pronome plurale non individuato emerge all’improvviso, determina la coralità del tempo con-vissuto. Un censimento di detriti esistenziali ed esperienziali prende forma in un tono esclamativo drammatico, mantenendo un distacco contemplativo (che non crea immedesimazione del soggetto con l’oggetto).
La minimalità organica e biologica pronostica il segno, simboleggia storia e avvenire, muta la fragilità umana in un labile orrore che dal passato giunge al frangente contemporaneo, lo frammenta e presagisce possibilità di rinnovamento. Uno spaccato di analisi ontologica ultra-contemporanea delinea una cesura all’interno di questo plurale impersonale, una incomunicabilità semiotica e semantica sancita dallo scisma del sintagma e della sua immagine, così come sono proposti dalla autrice, attraverso il loro dispiegamento nella rigidità della loro modernità, in un flusso di coscienza annidato accanto a ogni lessema.
Si palesa una riflessione non entusiastica sulla comunicazione e sulle comunicazioni nell’era dei social: sembra, però, che l’autrice tragga spunto dall’innegabile (quasi tragica) corrispondenza tra sentimento e connettività per suggerire un più ampio sguardo sulle relazioni umane, con una buona dose di ironia che compare quando la narrazione si fa più drammatica.
Il corpo si guasta sulla colpa dell’oggetto, giunge all’alienazione della carne, alla deperibilità non più fisiologica ma tecnologica. La disaffezione è il vizio dell’abitudine al digitale, alla presenza mancante: “quanto rimbomba,/dall’urna cineraria dove l’abbiamo riposta/con i resti della disaffezione che circolano/invano, una moneta fuori corso a raccontarci/di un’epoca in cui aveva ancora senso toccarsi”.
Un innesto del linguaggio alla composizione immaginale e sistemica della realtà all’interno del verso decreta la decifrabilità e la comunicabilità del dettaglio psico-etico investito dall’influsso della materia non senziente.
I “paesaggi aumentati” accelerano la visuale dal passaggio dello sguardo e promettono il dovuto salto dall’occhio elettronico a quello umano. Un’ansia latente e addomesticata alla velocità permea l’immaginario e l’inimmaginabile dell’opera, sostanzia l’asservimento alla vacuità, l’intermediazione della macchina tra uomo e uomo. Se l’eco della propria infanzia appare come una stonatura da camuffare o nascondere, si sarà pronti “all’esplosione digitale della serotonina” oppure, ancora di più, se ne sarà dipendenti.
Sembra necessario, quindi, rompere il vetro, sfuggire alla retorica dell’automatismo, slargare la disamina dello slang allo stupore dell’antico da ri-conoscere, introitare il senso della via d’uscita e, infine, tenerlo a vista – attenersi alla visuale. L’utilizzo di terminologia specifica di varie branche delle scienze come medicina, fonetica, informatica, ingegneristica, farmacia, chimica etc. – e il loro uso promiscuo all’interno di uno stesso contesto semantico – appare come una suggestione sulla congerie di competenze contemporanee cui fa da contraltare una feroce incompetenza emozionale che non è da leggere come menefreghismo bensì come ritorno al frutto acerbo del dubbio e dell’incertezza. Sembra che stia avanzando una “progressione del no” parzialmente annichilente, nonostante sia necessario il diniego per accedere a nuove forme del sé: “non/oltrepassare il diniego, accettare l’inconveniente di sfilare/come una preda commossa in un’arena di pollici versi”.
Quell’evoluzione “in direzione di un pensiero efficiente” è la chimera del presente, l’ossessione al movimento concludente che, appunto, tende alla conclusione, al disfacimento della volontà. Il linguaggio- l’atto di esprimersi attraverso la scrittura- realizza la coscienza dell’esistenza, la postura dell’essere che travalica il destino del corpo e si travasa in quello della storia – come narrazione e come intuizione dialettica. Sembra palpabile una nostalgia di ipotesi storico-antropologiche irrealizzate che sappiano divergere dall’urgenza della noia postmoderna e dal nichilismo iperattivo e imperante senza inficiare l’avanzata della specie e senza causarne l’arresa a un inaccettabile determinismo filosofico-ermeneutico.
Nel dilemma bioetico dell’ontologia travasata nel digitale e della tecnologia innestata alla metafisica, la parola poetica è quel linguaggio onnivoro di tutte le scienze e le filosofie in cui l’uomo sopravvive così com’è, in ogni tempo e in ogni luogo dell’ispirazione.
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Il cursore aspetta sul gradino numero nove,
ficcato in un’attesa stagna in zona 41 55′ N
12 25′ E, nemmeno troppa adrenalina
in circolo, solo lo sconforto delle vie d’uscita
quando indicano il male minore, sommando
profili di assenza e schiere di input alla dismisura
del giorno. Dove sono le miriadi di voci
che irrompono su pavimenti tattili e pareti
annerite, gli urti mattutini che stridono sulle labbra
di latte, gli ossimori su cui inciampano le cromie
dell’umore: dove sono le serie numeriche
che ci ricompongono, lo start che ci regola in vita?
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A 7 km/h il libeccio lega stretti i suoi 33 nodi
e una rete di violaneri rastrella l’atmosfera,
la avvoltola in umori volubili e idrometeore:
dalla torretta pi alta dei nostri vani, settore
attiguo all’ansia, fronte precarietà , praticamente
una guglia di ipercontrollo, l’antenna interrompe
le trasmissioni. Noi osserviamo dietro vetri
soffiati lo spatolato del cielo stingersi di mezzitoni,
e la nostra angoscia speculare irradiarsi intera
da una propaggine di fatalità. Siamo questa
specie banderuola, che scrolla i sensori davanti
al pericolo e poi si ripara, sfugge, trema,
chiosa un rimedio per non pungersi con la rosa
dei venti, quando il rovescio di sorte in arrivo.
Ma dove trovare riparo, ora che la pioggia esonda
dai nostri canali lacrimali e tuonano tutte le cellule
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Forse ci risveglieremo da un sonno
di confine, un fuoco nero arder
allo zenit delle tenebre, respireremo
il fumo denso che ascende fino
al firmamento in volute e profezie,
chiederemo a un algoritmo la ragione
d’essere in avaria ostinata, così fragili,
e tutte le istruzioni per sfuggire al caso,
sopravvivremo anche alla banalità
dei giorni, all’addio volubile di pin
e password, arenati in qualche rada
della mente, cambieremo il filtro
delle lenti ma mai la prospettiva
aurea, staremo nell’assenza di peso
e gravità, estatici, una visione doppia
di noi stessi: da un lato vivi, dall’altro
[…]
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Silvia Rosa nasce a Torino, dove vive e insegna. Suoi testi poetici e in prosa sono presenti in diversi volumi antologici, sono apparsi in riviste, siti e blog letterari e sono stati tradotti in spagnolo, serbo, romeno e turco. Tra le sue pubblicazioni: l’antologia foto-poetica Maternità marina (Terra d’ulivi 2020), di cui è curatrice e autrice delle foto; le raccolte poetiche Tempo di riserva (Giuliano Ladolfi Editore 2018), Genealogia imperfetta (La Vita Felice 2014), SoloMinuscolaScrittura (La vita Felice 2012), Di sole voci (LietoColle Editore 2010 ‒ II ediz. 2012); il saggio di storia contemporanea Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo d’emigrazione al femminile (1860-1960) (Ananke Edizioni 2013); il libro di racconti Del suo essere un corpo (Montedit Edizioni 2010). È vicedirettrice del lit-blog “Poesia del nostro tempo”, redattrice della testata online “NiedernGasse”, collabora con il blog di letteratura “Margutte”, con la rivista «Argo» e con il quotidiano «il manifesto». È tra le ideatrici di “Medicamenta ‒ lingua di donna e altre scritture”, progetto di Poetry Therapy che propone una serie di letture, eventi e laboratori rivolti a donne italiane e straniere, lavorando in una prospettiva psicopedagogica e di genere con le loro narrazioni e le loro storie di vita. Ha intervistato e tradotto alcuni autori argentini in Italia Argentina ida y vuelta: incontri poetici (edizioni Versante Ripido e La Recherche 2017). Per Vydia editore ha pubblicato Tutta la terra che ci resta (2022).