Elisabetta Motta, Mostri e prodigi, Pendragon, Bologna 2021 – recensione di Massimo Morasso

Elisabetta Motta, Mostri e prodigi, Pendragon, Bologna 2021

Conosco buona parte degli scritti di Elisabetta Motta: i libri su Pusterla, Rondoni e Giampiero Neri, i dodici dialoghi di La poesia e il mistero (La Vita Felice, 2016), e alcune delle note di presentazione che impreziosiscono le edizioni d’arte de Il ragazzo innocuo. Gli studi sono felicemente eccentrici, i dialoghi svelanti, le note apprezzabili per onestà e candore intellettuale.
Questo nuovissimo volume sorprende per tema, struttura e funzione culturale. Basta dare un’occhiata al sottotitolo, Mito, arte e letteratura dall’antichità ai giorni nostri, per arguire che la Motta ha pensato bene di riunire qui una discreta pluralità di competenze, per passare in rassegna alcune delle figure che animano il ricco patrimonio che ci elargisce la cultura del monstrum (l’essere anomalo che nella sua originaria accezione latina era a un tempo un avvertimento e un segno profetico) più che del mostro come lo intendiamo oggi. A sfilarci sotto gli occhi lungo oltre duecento pagine sono otto fra i più noti e più diffusi di questi monstra: la sirena, il basilisco, l’unicorno, la fenice, la chimera, il grifone, il centauro e il drago. Istintivamente verrebbe anche da parlare delle omissioni, che rappresentano una delle attrattive più inaggirabili dei testi-panorama come questo. Ma sedando il primo moto, occorre invece segnalare la “fertilmente mostruosa” ibridazione operata dalla Motta e dal suo editore Pendragon, che hanno voluto ampliare le otto scorrerie storico-culturali dell’autrice inserendo nel corpo del testo otto inediti di otto poeti contemporanei, le musiche di Vincenzo Zitello (ascoltabili attraverso un codice QR che è stato posto all’inizio delle singole sezioni), le incisioni mitico-ri-creative di Luciano Ragozzino e, per fare buon peso, si direbbe, anche una loro lettura artistica a firma di Laura Marzorati. Ci sono libri che ci ricordano l’importanza del lavoro di squadra, nella vita. Mostri e prodigi – senz’altro – è uno di quelli.
Quanto alle poesie… Penso che i versi di Giuseppe Conte – sull’unicorno –, di Giancarlo Pontiggia – sulla fenice, di Fabio Pusterla – sulla chimera, e di Paola Turroni – sulla sirena bastino a giustificare lo sforzo della lettura. Esiste una vasta documentazione relativa ai mostri messi sotto la curiosa lente di riflessione della Motta. La trattazione, nei testi che assemblano l’assemblabile a fini didascalici, è di solito sciapa e, in fondo, un po’ noiosa. In questo, si avverte la volontà di cogliere il senso radicale ed essenziale del passo a due tra la facoltà razionale e l’immaginazione umana chiamate, entrambe, nel prodigioso del mostro, per così dire, a un paradossale, “animalesco” rispecchiamento identitario.
Tutti gli otto capitoli del libro sono ugualmente istruttivi. Per certe creature sempiterne da bestiario, il bello è che tanto più sono inverosimili, tanto meno finiscono per annichilire la logica del Fantastico che, nel lato in ombra della nostra mente, continua a scavare nelle faglie della ragione per riversarsi in forme artistiche e letterarie le più diverse. Le musiche per arpa celtica e altri strumenti ad arco concepite ed eseguite da Zitello sono nuovi, mostruosi prodigi di virtù.

Massimo Morasso

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Giancarlo Pontiggia
La Fenice

Mi accorgo di non saper niente del buio,
anche se in molti ne hanno scritto. Il buio
inerte, denso, immoto, che si nutre di sé,
e non ha pace. L’anima, che vola via dai suoi tormenti
ne sa forse meno di noi: muore
per vivere ancora, prima che il tempo la disgreghi.
Ricordo una sera in cui eri qui, e mi dicevi
che non c’è fuoco che possa durare per sempre,
e che questa è la legge del mondo: ma io ti chiesi
di quale mondo parlassi.

C’è sempre molta attesa, quando una porta si apre.
Ci carichiamo di un nuovo principio, a un passo
dalle cose, prima che le luci si spengano.
Tra due mondi che si sfiorano,
s’interpone una forza, invisibile, che agisce
e li trasmuta: sai di cosa parlo. La logica della vita
non è vivere, ma restare nel suo nido di fuoco,
accoccolati tra le piume, prima
di ogni verdetto.

Né ira né furore, né fiamme che bruciano
sulla pazienza dei tuoi occhi. Come può essere
che una freccia traversi
il ferro che stride di un cielo? Vorrà dire
che qualcosa è accaduto, che il tempo si è conficcato
fra un interstizio e l’altro, come un palo inatteso.
Oltre i vetri, c’è un secolo che preme, e urge, e si sfilaccia
in un disordine promiscuo, di cose.

Tra il seme e il tempo necessario, fra l’intenzione
e la pienezza dell’animale, si leva un buio imprevisto,
che non abbiamo conteggiato. Mi domando dov’eri,
quando ho guardato in alto, nel fogliame delle palme.
Dov’ero, quando fu deciso che il vento battesse
anche per noi, prima di ogni scopo,
e di ogni decisione.

Noi, poco prima che gli spalti si svuotino,
a un passo dal traguardo, fissi
sui blocchi di partenza, nel lume
che c’infiammò per sempre, mentre frusciano
tende, nel primo zampettare, fermi,
in quel buio