La sintesi triadica della poesia di Guglielmo Aprile
in “Il sentiero del polline”, ed. Kanaga, 2021
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Fin dalle prime pagine di questa raccolta siamo di fronte a un acceso simbolismo che richiama emotivamente la perturbante percezione baudelairiana di ieratiche impenetrabilità, le “colonne vive” del tempio che è la Natura, da cui sfuggono solo “confuse parole”, enigmi. In esse, tuttavia, il Mistero parla e traluce, si manifesta cioè in quanto tale, in quanto presente ed inesprimibile.
Ma ancora più interessante, al nostro riguardo, è quel che lo stesso Baudelaire afferma nella sua prefazione ai Nuovi racconti straordinari di Edgar A. Poe: “È il meraviglioso, l’immortale istinto del bello che ci fa considerare la terra e i suoi spettacoli come un compendio, come una corrispondenza del cielo”. Annunciando con ciò, quel che era stato in diverse forme detto, che l’arte è la conoscenza più alta, e prelude ad un incontro col metafisico.
Analoghe impressioni mi pare di cogliere, fin da subito, anche nei versi di Guglielmo Aprile, un poeta che si fa “pellegrino” del mondo per desiderio di incontaminato e di purezza. Nella quarta di copertina si rileva che il titolo della silloge -“Il sentiero del polline”- riprende una espressione della mistica navajo, riferibile all’itinerario che lo sciamano compie durante l’iniziazione. E in effetti il testo si presta ad essere interpretato come una sorta di iniziazione rivolta alla conquista di una verità.
La silloge è divisa in sette brevi sezioni ed ha un andamento quasi diaristico, all’interno del quale i testi poetici scandiscono la loro funzione di annotazioni di viaggio. L’andare del poeta si presenta, verosimilmente, come un’inchiesta, una investigazione di sé e di un incontaminato mondo che sembrerebbe quello delle origini. Nel suo gesto si inscrive il perpetuo universale vagare dell’uomo incontro al Mistero che è la vita nelle sue multiformi espressioni. È all’interno di essa che il poeta cerca e registra il segno e ne conquista il senso nella sua impronta sconvolgente e soave.
Alta poesia dunque – quale è sempre la poesia del Mistero – è questa con la quale ci incontriamo: una ricerca vasta e mai colmata che investiga tutto il senso dell’essere, racchiuso nell’altro e nel se stesso. L’intero testo è altresì un’ode alla Natura, e se ne colgono gli accenti più propri sin dal suo incipit. Una Natura, come dicevo, attraversata, anche in nei suoi aspetti minimali, dal mistero profondo che è la vita.
Gli esseri, e le cose che ne fanno parte, mostrano spesso elementi e qualità umane, e sono attraversati da uno spirito che li assimila al portento. Notiamo, ad esempio, quante volte ricorre, fin da subito, il termine “pelle” per indicare la superficie di cose inanimate “Scava il morso dell’onda nella pelle/ della scogliera…”; “Sulla pelle dei massi, cicatrici/ e squarci…”, pp.4 e 5; a p.8, in “Onda madre: “C’è nel vento e nell’onda uno scultore/…ha scavato la roccia e levigato/ la pelle della costa”: elementi umani, dunque, compenetrati negli elementi naturali e uno spirito creatore come è nell’uomo.
Ma è solo un piccolo esempio, uno dei tanti che se ne possono fare. In realtà, ogni aspetto della Natura è antropomorfizzato attraverso l’uso ricorrente di metafore e analogie che riconducono a campi semantici che hanno nell’uomo l’elemento centrale. Forse allo stesso modo, nelle lontane epoche della storia, i divini aedi tessevano canti e lodi alla meraviglia perenne dell’essere che si dispiegava davanti ai loro occhi, e rendevano grazie alla sua essenza numinosa.
Anche in questi versi compare alcunché di ieratico: anche qui, il vento, l’onda, le nuvole e la pioggia, sono pieni di anima, sono i divini creatori di nuove forme, i riplasmatori universali dell’essere nel suo incessante divenire. Così, “La pietra e la schiuma, avversarie di un’epica millenaria…” sono tra gli elementi di ricorrente personificazione, in una lotta che appare come il paradigma del polemos eracliteo: “La guerra, madre e regina di tutte le cose”. E tutto l’essere – il mare, il vento, i flutti, le coste e le alture, il cielo e gli astri – sono, al pari dell’uomo, glorificati nella loro storia, nel loro destino, creature palpitanti di vita, piene di arcana grazia.
Spesso, la tessitura di immagini e percezioni si sviluppa e si libera in un percorso mitico di ancestrale creazione – come, ad esempio in Metamorfosi – o di riemersione di un sommerso e glorioso passato – come è in “Archeologia marina”- parti, entrambe, della prima sezione “L’inquieto mare”.
Nella successiva -“A piedi, per i campi”- tornano i traslati in cui troviamo inframmischiati elementi naturali e umani, dove cioè l’inanimato si anima: “…decifro/ gli indizi incerti, che dita di luce/ tra gli alberi disseminano:/ piste nascoste, fuggevoli tracce/ verso un paese d’oro e di chimera.” Ed ecco che la ricerca si tinge qui di una romantica sehnsucht, dell’inseguire il sogno, la terra promessa, l’ideale purissimo dell’utopia, ovvero, l’”incontaminato” e il “puro” di cui si diceva, parte dell’infinito anelito di sconfinamento dello spirito. Ovunque è un racconto che intesse visioni e fantasie, percezioni pronte a ricreare l’evento mitico e a spalancare l’enigma delle cose. Una continua affabulazione si muove sull’onda di un passato lontano, leggendario, e sulla vaghezza di un presente fluttuante, onirico e impenetrabile.
Troviamo assai spesso una completa immersione e immedesimazione nel mistero del cosmo, la mescolanza di elementi terrestri e celesti in una dimensione in cui lo stesso cantore della mirabile visione è coralmente assimilato agli altri esseri ed elementi naturali di questa.
Il linguaggio ha la virtù essenziale di cogliere la sostanza profonda delle cose, senza sforzo, e con una concretezza vivida che si scompagina e si perde in echi profondi laddove paesaggio e natura si fondono nell’interiorità del poeta.
In alcuni versi cogliamo l’uso di un aperto simbolismo come è in Olivo: “…Olivo solitario,/crocifisso contro/ il muro del sole a picco!/ Cristo della pianura!/…Ti porge una cicala/ l’aceto del suo canto,/ …” Ed altri ritessono arcane risonanze in cui ritroviamo l’enigma, e ancora analogie che sottendono le già citate “corrispondenze” baudelairiane.
Ammirevole è con quale incantamento dell’anima il poeta muove il suo occhio tra le cose e gli esseri della realtà, che hanno tutti dello straordinario, tutti un segreto da nascondere e da narrare. E un alone di intraducibile si insinua nelle pagine e nella trama di questa narrazione senza fine: “…e il cielo è di ogni fiore e di ogni sasso/ tacito confidente,/è un viaggiatore stanco/ che sul letto delle colline adesso/ non ha di sé più memoria, si stende.”: un breve esempio, ancora, di come il testo sia una tramatura fitta di elementi che coprono il campo naturale e umano, e rinviino, al contempo, ad uno sconfinamento nell’oltre.
Altro esempio: “Gemme sparse tra l’erba/ laghi che dormono,/ bambini d’acqua,/ schegge di cielo cadute/…” : è una costante di tutti i testi, dunque, la triade che rappresenta l’elemento portante, chiave di volta, non delle singole parti, ma dell’intera silloge: vale a dire l’intima connessione degli elementi naturali, dell’umano e del divino, in una pervasività profonda che ha risonanze infinite e diviene anima del Tutto.
La sezione “Nautica da diporto” appare più palesemente un diario di viaggio dove la rassegna dei luoghi, dei paesaggi si svolge all’insegna del magico e dello straordinario.
Sul Gower – scandito in otto tempi – ci consegna, con pochi e veloci tratti, il divenire di un tramonto che annuncia la tempesta. “Rapide e basse spiegano/ formazioni in battaglia, le nuvole, in corsa sul mare/ aggrovigliato, cieco: castelli alati issano,/ o arieti audaci/ a scalare gli spazi,/…” .
Tutto è smisuratamente trasfigurato e l’anima del paesaggio ci viene incontro in un delirio annunciante. “Cirri in corsa sul mare,/ mandrie braccate, il vento/ arciere li incalza, scheggiano/ comignoli, mura merlate,/ invadono le torri,/ straripano folla urlante/ dai divelti portali/ del cielo, scrivono sulla terra/ le grevi mobili ombre/ di profezie oscure,/…”. In questo mosso quadro, squassato dalla tempesta, gli elementi cosmici sono furie scatenate, un delirio in assetto di guerra, dove, come sempre, tutto è rapportato a una natura vivente, antropomorfa.
Il metro dell’umano – l’umano cuore – descrive, parla: in perfetta fusione con l’elemento naturale, è lo scopritore del Mistero, che lo pasce e in esso si cela. Gli elementi della triade – quello naturale, umano e divino – pervadono come sempre il testo. Nella parte V “… il fiume denuda le sue ossa:/…” e “Furtivo tra i canneti/ un vento si accovaccia,/…”: ancora umanizzazioni dell’elemento naturale, e presenza del divino: “Sulle spiagge del Gower/ il mare è un dio ostile,/…”
Nella stessa sezione, Notti gitane – suddivisa in dieci componimenti – richiama l’atmosfera del lorchiano “Divan del Tamarit”e la volontà del poeta spagnolo di chiamare in vita lo spirito dell’Andalusia araba della quale avverte in sé la profonda eredità.
Anche nel componimento del nostro Autore, il paesaggio rievoca ataviche memorie e le matrici arabe della cultura andalusa.
Nelle altre sezioni – “Re delle nuvole”, “Rosa del venti”, “Amor de lonh” e “Oltremare” – troviamo ancora il connubio cosmico di umano e divino, di pietra e carne, mare e cielo, montagne ed alberi. Il richiamo al cielo, a spazi e dimensioni altre, sconfinate, è continuo. Il tempo domina eterno sulle cose. Le loro radici lontane affondano nei secoli e nei millenni. E ogni cosa respira l’aura del sovrasensibile.
La Natura, in ogni suo aspetto, sembra racchiudere un segreto, l’arcano che si annuncia e non si dona. Ed ecco altri versi, tratti dalla sezione “Rosa dei venti”, che alludono a questo mistero che la natura cela, e che ci danno la sicura impronta e il senso di questo cammino che è inesausto cercare: “…Interroghiamo/ a lungo il vento, che a volte ci parla// ma in una lingua che non è la nostra;/ ogni strada tiene per sé un segreto:/ non sa o discreta fa che non trapeli…” (Le orme dei cammellieri).
E ogni cosa è in divenire, è “in cammino” – come noi nella nostra continua ricerca. Ma la meta di questo andare – che misteriosa chiama – e il “segreto” di ogni essere, che ci incalza in tale ricerca, sarà svelato solo a tragitto ultimato, alla fine di questo andare che è la nostra stessa vita (Ogni cosa è in cammino).
I versi della sezione “Amor de lonh” riecheggiano il tema dalla lontananza dalla donna amata, di Jaufré Rudel, in un’ambientazione moderna, metropolitana, ma non per questo priva di un alone di mistero e densa di simboli – come è, ad esempio, nel testo ”Le Esperidi” – di indizi allusivi e sfuggenti di donne, ed enigmatiche tracce che invitano ad altra ricerca, legando insieme sogno e realtà.
La sezione “Oltremare”, che chiude la silloge, ripropone, in riferimento all’intera opera, la struttura circolare dei singoli componimenti: Il vento è elemento di personificazione di questo eterno “andare” e di questo”cercare”, e di identificazione, dunque, con lo spirito stesso del poeta. Ad esso si può assimilare l’onda del mare, nel suo ritmato incedere e tornare. Elemento che, come il vento, plasma le forme: un continuum di vita che si genera e si perpetua misteriosamente, all’interno di una Natura che conserva il suo volto enigmatico e sempre allude al mistero di un altrove.
Un mistero certo dialogante con chi lo cerca, ma mai prendibile e godibile appieno, che ci lascia sempre insaziati e sempre alla ricerca di una meta, di un approdo che conosceremo solo quando vi saremo arrivati: capolinea di questo andare ramingo, privo di direzione e fine, se non quelli che ci spingono ad andare oltre l’orizzonte, a valicare ogni confine. Il titolo della sezione – “Oltremare”- è, infatti, una metafora che esprime lo stesso concetto: andare oltre quel che sembra il tutto.
L’andamento dei versi, la loro struttura formale in relazione allo sviluppo tematico, è per lo più circolare: quella di un sistema concluso, che torna alla fine a ribadire se stesso. Il tema principale, il messaggio profondo, si condensa, perciò, nella chiusura del componimento, annodando gli sparsi elementi semantici in una unità fondamentale.
L’ultima sezione ribadisce le tematiche iniziali, stabilendo tra essa e l’intera opera, lo stesso rapporto di circolarità presente nei singoli componimenti.
Rossella Cerniglia