Inni transitori sulla bellezza
INNO I (Noi passeggiamo)
In quali mondi
siamo stati eletti dalla bellezza
poi dimenticati
da qualcuno che s’assesta in alto
sole di miseria
ventre gravido di corvi
noi passeggiamo
prendiamo forma, la perdiamo
intorno agli occhi
s’interra la vela del sonno
gli ulivi, qualche sera prigioniera
in quali mondi
ci sarà restituito tutto questo
questo andare per i prati
a raccogliere il silenzio
le mura tutto intorno
compatta nebbia d’oro
le foglie che s’illuminano
come quando nasciamo
diteci se siamo forti
se regge la voce
per ossidare il vuoto
la bellezza presenta sempre il conto
e talvolta, inaspettatamente
procede dalla nostra notte.
INNO II (Il padrone dei nati)
I nati, gli orti
recintati dal buio
le tele del pittore in pausa
a cui nessuno parla
gli sfridi del creato
a cui si passa il cibo
dalle feritoie
sperando che l’inverno
faccia il suo corso. Qualcuno
giace inavvertito, forse tutti
transitano da una forma all’altra
implodono
a capofitto nel silenzio
senza che la bellezza se ne accorga.
Tu che passi con i tuoi nomi
bene in chiaro
tu che scorri
aquila che pondera la notte
devi fidarti di noi
togliere il cappotto
scendere nella pioggia
ogni inflessione della luce
qui si riposa, trancia un’arteria
affiora dalle parole
che rincorrono il senso, l’assurdo
svanito da tempo ogni dubbio
su chi sia il padrone.
INNO III (La domanda)
Prensili vie, vie tortili
dell’inospitale bellezza
che sia un giardino, un lago
di grida e foglie feroci
cortecce scanalate
con vista sul fuoco
ovunque la premura del silenzio
se guardo
ecco le reni del tempo
l’ombra mutata in altra ombra
i fossili di qualche corruccio
che vaga per l’aria
tutto a poco a poco
si fa sottile, minimo
minuzie assaltano il cielo
quasi una lingua nuova
che agogna di essere percepita
finché improvvisa, da un buio
luminoso, da un osservatorio
accanto alle radici
prorompe la domanda
dove si è rintanata
per quali mute tappe procede
l’oscena deflagrazione umana?
INNO IV (Tutto si fa chiaro)
Forse ti confondo con i platani
che invitano il vento nel giardino:
la linfa comune
che dispone della sera.
Ogni foglia
s’addossa alla successiva
l’invitato le scompone
e forse è quello il loro amore
l’impeto malato
prima di addolcirsi.
Tutto sembra bastare.
Nessuno viene qui a fingere
la sua fanfara d’aria
che smotta sui corpi
e poi s’appesta
trafiggendo i gerani.
L’orma umana
la scalfittura della luce
che ci ha alienati.
È un tempo di vene
che indulgono in altre vene
di solitudini ampie
come campi di battaglia:
tutto si fa estremamente chiaro
quando nulla è possibile chiarire.
INNO V (Profughi)
Quanta campagna
profughi della bellezza
arenati sul belvedere
che replica il verde
i volti che virano
incocciata la sponda
quante piante luminose
nella mente, proprio dove
con cura alberghiamo i nomi
si va in salita, si precipita
nella valle dove ardono i gesti
si cerca di elevare qualcosa
di costruire un forte
per ciò che resiste
ma le mani s’incagliano
gli occhi cedono all’astore
e il buio così raccoglie
soltanto fame
solo aborti, digiuni
una lingua per annotare
la morte, per trascendere
da corrotti nella luce.
*La fotografia è stata fornita dall’autore ed è di sua proprietà