Laura Di Corcia – In tutte le direzioni (Recensione di Giovanna Frene)

laura di corcia in tutte le direzioniRecensione comparsa sul bimestrale di poesia “Il sarto di Ulm” (Macabor, dir. Bonifacio Vincenzi)
 
Laura Di Corcia, In tutte le direzioni, Lietocolle – Pordenonelegge Collana Gialla, 2018, pp. 80, euro 13.

In un suo recente saggio, Odiare la poesia, Ben Lerner propone un’interessante distinzione tra quelle che sono le “poesie reali”, cioè le poesie concretamente esistenti, che per quanto possono essere realizzate virtuosisticamente, proprio per la loro materialità sono comunque una realizzazione imperfetta di un ideale; e quella che, per dirla con le parole del citato Shelley, si pone come “concezione originaria del poeta”. Cosicché, all’imperfezione del testo poetico delle poesie, si oppone la costante “possibilità poetica” della poesia. A questa prima difficoltà della scrittura poetica, se ne affianca una seconda, che è in relazione con la storia. E qui ci soccorre Zanzotto, che in un’intervista degli ultimi anni affermava di aver perso la fiducia nella Storia, intesa come costruzione scientifica, da bambino, e di averla riposta, da allora, nella poesia, intesa come registrazione sismica delle passate attualità in termini di “germinazione, partecipazione”. Rispetto a questi due fulcri problematici, al singolo poeta non può che spettare prima di tutto una chiara coscienza sul dove posizionarsi e a quale distanza. Questo punto di vista è lo stile.
La seconda opera poetica di Laura Di Corcia (Mendrisio, 1982) non si tira indietro rispetto a questi due problemi capitali, rispetto ai quali colpisce la qualità poetica delle risposte, che suggeriscono l’apertura del poetico, appunto, “in tutte le direzioni”. Come giustamente sottolineava Niccolò Scaffai nella sua recente recensione uscita nel “Corriere del Ticino”, il viaggio/attraversamento non è da intendersi solo come contenuto, ma come elemento strutturante il libro stesso e generante un pluristilismo, che in questo caso si ripartisce abbastanza omogeneamente nelle tre distinte sezioni del libro. Libro il quale, spostandosi avanti e indietro rispetto ai succitati fulcri del “poetico” e della “storia”, testimonia assieme l’efficacia della rappresentazione allegorica e il suo sdoppiamento nella voce, reale e tragica, delle persone.
Caratteristica della prima sezione è l’apparente indecidibilità del referente, ma solo a una prima lettura: se infatti vi sono pronomi personali singolari e plurali che si pongono sulla pagina come deittici, man mano però che il vapore del mito e della tensione apoftegmatica si diradano, appare sempre più chiaro che l’io che emerge fa da cerniera a un noi storico preso concretamente sulle spalle dal poeta, come Enea fece con Anchise; la parabola, infatti, è quella di un tragitto di fuga nel quale il poeta è allo stesso tempo partecipe tra gli altri e testimone per gli altri, anche se non più di una salvezza. Se c’è stato un periodo dell’oro o una terra ideale, una serie di eventi in successione ha portato a partire per “continenti mai sentiti, bucati nelle miniere, / e le mani non erano più melograni / ma ribollii di melma”; di quel tempo e di quella terra rimane una labile memoria, perché “le cose più belle non lasciano aloni”, anche se “L’amore rimane appiccicato ai muri per sempre”. La condizione a cui ogni volta porta la parabola dialettica rovescia, infatti, è quella della caduta (che si ripete all’infinito: “poi tutto continuò, sbiadendo dietro la collina”), ben rappresentata dal verso “L’innocenza non è un fatto sopportabile a lungo“. Non a caso chi raccoglie i frammenti di quest’innocenza impossibile è il poeta nella figura di bambina, immagine per eccellenza della purezza dello sguardo e insieme incarnazione di una speranza irrinunciabile: “Tu picchierai la testa dieci volte, / bambina, prima di scoprire / il rotondo del rosso, la puntura del verde. / Morirai di fame attendendo la promessa”; e siccome “Il male si partorisce ogni giorno”, la parola poetica si leverà sempre “per coprire / asfaltare il dolore di un mondo crudele”. Non si pensi però che questo, cioè quello poetico, sia un atto ingenuo o senza paura, perché alla policromia chiara della negatività (i colori terrigni, in primis il giallo, ma anche il bianco dell’annichilimento) il poeta sì risponde “non indietreggiando / di fronte alla coltellata del creato”, ma anche con la consapevolezza di essere lui stesso parte del dramma della caduta (“Decidemmo che l’adamantino / del cielo (…) ci bucava la testa. // Come nulla lo trapanammo / da sotto, raccogliendone le macerie / fino alla salita, fino all’urlo di morte”), tanto che in alcuni punti la vicenda irredimibile è prima di tutto la sua: “Ho cercato di evaporare / la carne, di spingerla / verso il verde del passato. // Ma niente: il marmo non si spostava / duplicava il suo peso nelle zolle. / Il sempre delle pietre mi violenta”. Se, quindi, “la storia / non risolve niente”, ma anzi c’è una continua coazione a ripetere la violenza, la fine del mondo che arriverà come interruzione della ripetizione avrà annichilito prima anche la memoria poetica, e tutto sarà indistinto, cosicché “Nel brodo amniotico / germoglieranno / solo / insetti”.
Questa prospettiva di auspicato azzeramento geologico premette all’apertura della seconda sezione, dove si potrebbe usare la metafora del sangue umano che pulsa nelle vene della storia – non a caso la trilogia che apre la sezione si intitola Trilogia del rosso. In questa trilogia la focalizzazione torna per così dire interna alla bambina-poeta, la quale è nello stesso tempo allegorica e reale, nel senso che vi è una sorta di narrazione magica dell’infanzia dell’autrice: il rosso è il colore della perenne nascita, degli uomini e delle cose, le quali però decadono subito nel verde (giovinezza) e nel blu del mare (viaggio); “nel rosso / si amalgama tutto”, dagli eventi esterni ai desideri interni, e ogni volta da questa indistinzione tutto rinasce intatto; il rosso è il colore dell’amore, che però o è declinato nell’ovidiano “nec tecum, nec sine te”, oppure nella vicenda infelice di Hilmi e Liat (novelli Romeo e Giulieta nel romanzo di Dorit Rabinyan Bordelife), oppure nella coscienza della dicotomia mente/corpo (“La mente costruisce cumuli di cose, / montagne di mattoni, iati, i corpi, / invece, tendono alla caduta , sprofondano, / nell’energia dell’atomo, si arrendono / alla discesa e annichiliscono il piombo”). Proprio la vicenda tragica narrata da Rabinyan, ambientata a New York, fa da cerniera alla dimensione storico-antropologica della migrazione italiana nella Grande Mela. Lo spaesamento di chi, migrante, si trova su una terra nuova (“Arrivammo in una terra / che aveva dimenticato / l’odore delle arance. […] L’amore era un lontano ricordo / fuori gli elementi continuavano a fondersi / noi eravamo pezzi che non combaciavano”) e inospitale (“Quando siamo arrivati qui / ci siamo accorti che tutto era di metallo / che la colpa era sempre di qualcuno, mai di qualcosa.”), reintroduce la stessa dimensione di sconfitta avvertita nella prima sezione: una sconfitta rispetto al male dove però non è possibile dirsi colpevoli né innocenti, ma solo semplicemente esistenti in un contesto (Raboni direbbe “Per esserci stato”), ed esistenti in quanto alienati, e testimoni che “C’è qualcosa di sbriciolato / in questo mondo, in questo dio / ubriaco di foglie e bicchieri / e cani e topi”.
Un avvicinamento alla storia presente, e quindi un maggior realismo anche linguistico (da notare la capacita dell’autrice di modulare lo stile a seconda del contesto strutturale), si ha nella terza sezione, rappresentata dal poemetto Qui, che vede nelle lunghe poesie iniziali e finali (Preludio. Lungo le coste del Mediterraneo e Finale) i suoi punti più alti. Le voci della sezione sono strutturate come in una tragedia greca, con tanto di inserzioni dei cori, solo che la condizione di alienazione dei migranti viene resa dalla sostanziale incomunicabilità di ognuna delle voci, che infatti sono rappresentate sulla pagine da singole poesie. Su quello che un tempo era uno dei centri della civiltà umana, il Mediterraneo, e che oggi è diventato un enorme sudario, si perdono l’amore infelice di un ragazzo che ha lasciato la sua ragazza, il rifiuto dell’amore da parte di una ragazza, la dolce filastrocca che una madre canta al suo piccolo, la fuga di un ragazzo gay dal rifiuto della sua famiglia, il viaggio di un uomo adulto completamente solo, il sogno collettivo di un gruppo di donne siriane; al coro viene assegnata la funzione del commento, il quale è a sua volta solo interrogativo (per esempio: “Perché la materia, a un certo punto / smette di rispondere alla legge benevola, / perché si converte nel suo opposto?”). Il senso di smarrimento e di lacerazione del viaggio giunge al culmine proprio nel viaggio disperato dei migranti, amplificato dalla dimensione di coercizione che le barriere, fisiche e spirituali, pongono (muri, reti, cortine, mare, vuoto, spaesamento, perdita dell’identità, delusione ecc., come si legge in Preludio): vi era un prima (la terra di partenza), auspicato anche come possibile dopo (la terra promessa da raggiungere), che era ideale, che invece è stato del tutto disilluso, tradito; perché il “trionfale Occidente” del benessere non contempla il “qui” dei disperati, drammatico e senza speranza (“Qui c’è la verga malata / il potassio / dei corpi l’ammasso […] / ci sono rovi che irti / pungono come preghiere / parole nere”), dove la prospettiva diventata normale è la morte (“al di qua siamo noi fermi e muti / in un eterno nulla / immersi in un mare primitivo / che non sa ancora dire / chi è morto e chi vivo”).

A questo punto, a libro chiuso, il lettore si accorge di avere un deposito di triste spaesamento nel cuore, lo stesso che era nato, ma per certi versi senza oggetto, nella prima sezione, ed era cresciuto nella seconda. Il viaggio non ha condotto in nessun luogo, al di là delle aspettative, perché “I sentieri non portavano da nessuna parte”. Ebbene, la poesia può ancora quindi essere un messaggio nella bottiglia che viene affidato al tempo, come diceva Paul Celan? Può oggi un libro di poesia essere un particolare tipo di messaggio che porta con sé, inscritta nell’istanza estetica, una nuova idea di umanesimo, in un terreno di macerie? Questo libro è prezioso in tanto quanto alla “poeticità” non sacrifica mai l'”umanità”. Non è scontato.

Giovanna Frene