Ilaria Seclì, L’Impero che si tace (Ladolfi 2019) nota di lettura di Giorgio Galli.
Forse lo scopo di tutti i poeti è ricongiungere la parola al silenzio: perderla nell’indistinto primordiale dell’Oltresuono e dell’Oltresenso. L’Impero che si tace (Giuliano Ladolfi Editore, 2019) è uno smarrimento completo, richiede al lettore la disponibilità a lasciarsi sfare come vento, a lasciarsi accadere mentre fuori la parola accade nel rigoglio dei suoi moti incantatori, e al tempo stesso anche la parola si lascia smarrire nelle mille risonanze del linguaggio, e il linguaggio si proietta fuori di se stesso, nel mondo ch’è fuor dell’opera. Che cos’è, dunque, questo Impero? E’ un’opera di poesia? Sì, in senso lato; no, in senso stretto. E’ un’opera di prosa poetica? Nemmeno. E allora cos’è?
«L’Impero che si tace è la radiografia del mondo muto, ciò che vive nascosto ai vivi.
Cose e insetti, finestre di case abbandonate, attrezzi agricoli, cancelli arrugginiti di borghi abbandonati. Giardini e vicoli nascosti di Trieste, Ginevra, Praga, Milano, Parigi, Lubiana, Lecce, Udine, Friburgo, Cividale del Friuli, Alsazia.
Val d’Arzino, Val Resia. Pozzis.
Boschi. Ombre. Neve. Fotografare un fantasma.
Impero delle inesauste provvidenze, fiato di Dio che picciol cosa indica, infiamma di segreti e improvvise vicinanze.
Mondo fatto piccolo. Boule de neige.
Il macro azzittito da traiettorie di formiche, suoni e colori dal mondo vegetale, gesti minimi, esistenze marginali. A Cividale l’uomo nel cortile costruisce la sua bara, il prete rivolge l’andate in pace a una chiesa vuota. Il francescano spala neve a piedi scalzi.
La vita non è il mondo e nell’Impero la vita si impone su di esso.
L’impercettibile come braccio d’Aleph ricongiunge cielo e terra, natura e umanità. Ristabilisce nell’attimo una intemporale cosmica armonia.
Nella seconda sezione, Amnistie, si registrano fatti e voci della vita mentre vive, la vita quando accade. Sgovernata, sgrammaticata. È la strada e non prende fiato: senza padroni, ribelli, ubriachi, folli.
Les analphabètes.»
Così l’autrice presenta il suo libro, in completa anarchia, con un uso anarchico e puramente evocativo di segni grafici come il corsivo e il grassetto.
Chi, dal titolo, si aspetta un’opera di protesta, un libro di rabbia contro un potere silenzioso e imparlabile che ci controlla, troverà soprattutto un libro di ribellione alla realtà così com’è: un libro dove ci sono sì operai dell’Ilva, ma più di ogni altra cosa c’è tutto ciò di cui non importa né al potere né a chi lo combatte. Ciò che a gran parte del mondo appare superfluo o folle. E allora, tornando alla domanda che cos’è questo libro?, possiamo rispondere che è un libro-mondo. Cortázar ne ha fatti più d’uno, di libri-mondo. Anche Ilaria Seclì ha dato vita, qui, al suo. Meglio ancora, L’impero è un apeiron. Un apeiron in cui, però, ci sono dei tagli. Quelli che convenzionalmente chiamiamo testi. Pochi di questi “tagli” sono scritti in prima persona. La parola di Ilaria è cosmica. Ilaria stessa come individuo quasi si disfa, cancella dietro di sé le proprie tracce. Il suo corpo è una cassa di risonanza, una pelle di tamburo su cui si scrive la sottostoria del mondo. Tutti quei segnali che all’umano sfuggono–specie all’umano tecnomerceologico- lei li cattura perché parla la lingua degli animali, dei minerali, delle cose senza Ego.
Dalle parole dell’Impero si può rilevare un’etica della dismisura. Per dismisura intendo tutto ciò che non è misurabile, che sta al di sotto o al di sopra, per sovrabbondanza o umiltà, del comune sentire mercantile. Soprammercato o sottomercato, lì stanno le cose che contano per Ilaria: lì sta il suo impero. Ella raccoglie infiniti e piccolezze, ha antenne sensibili a tutto ciò che è “trascurabile”; e, al tempo stesso, la velocità con cui fa apparire e scomparire queste immagini -la velocità della sua Wunderkammer- è proprio la velocità dei giorni nostri, la motricità incessante delle macchine, il ritmo furioso del consumo e della distruzione. Non si sfugge del tutto al proprio tempo. Solo che Ilaria non distrugge le immagini: al contrario, le rende immortali proprio nell’attimo della loro scomparsa, proprio in quanto -e al ritmo in cui- vengono divorate dall’umano. Il suo dire oltrepoetico raccoglie, come da un bidone dell’immondizia che in realtà è la cesta delle meraviglie abbandonate, oggetti, persone, parole, film, e soprattutto luoghi, con una tecnica del montaggio che ricorda il cinema puro di Dziga Vertov. Segni di vita e segni della cultura, tutto entra a far parte dell’universo significante di Ilaria. Se il pensiero occidentale si basa sulla possibilità di scartare l’essenziale dagli accidenti, Ilaria crede che l’essenziale è tutto e spinge la sua arte su questo prischiosissimo terreno. Sulla sua cassa di risonanza batte i suoi colpi l’universo. La lingua registra i colpi e le vibrazioni. L’incantesimo riesce. Solo, mi domando dove conduca questo “tutto”. Per Ilaria, porta alla sua stupefacente poesia. Ma per il mondo non sfocerà verso l’indifferenziato, verso un “tutto” che si autoannulla? Cosa c’è dopo l’oltrepoetica? C’è qualcosa di nuovo e ricco oppure il nulla, la fine per autoannullamento -per autodissoluzione- del dire? E in mani meno umane di quella di Ilaria, il “tutto” arriverà a contemplare anche l’orrore? Ecco la domanda che questa poesia lascia. Che forse è la domanda stessa che questa poesia è.