Silvia Rosa, Tempo di riserva (Ladolfi 2018) – Un estratto
Silvia Rosa, Tempo di riserva (Ladolfi 2018)
“[…] In queste poesie di Silvia tornano frequentemente termini o espressioni che hanno a che fare con lo sperpero, lo spreco, la quotidianità scolorita, la banalità di giornate tutte uguali, la gabbia domestica, la noia, il niente, il vuoto, la nudità, il buio, il freddo, il silenzio, l’assenza, le ombre, le illusioni, le delusioni. I corvi giorni, neri come i pensieri. E non tornano solo d’inverno. Ne sappiamo qualcosa tutti, credo. Leggendo Silvia ho pensato ai diari-confessione di Sylvia Plath, in particolare alla sua campana di vetro. Quel guscio invisibile capace di proteggerla dal mondo esterno e al tempo stesso soffocarla. E ho pensato a lei che cerca di scalfirlo con la poesia, unico, liberatorio antidoto all’asfissia. […] Tutto il calendario di Silvia, per quanto suddiviso in quattro momenti, è un’unica lunga stagione, quella che le condensa tutte e le osserva avvicendarsi senza sosta. È la stagione dell’analisi, della somma parziale, dello sguardo rivolto a quello che è già stato. E non torna. Al pari dell’infanzia, la vera protagonista di questa raccolta e, a mio avviso, uno dei pilastri della poetica di Silvia Rosa. Del resto, quello dell’infanzia, è un tempo non tempo. Immobile, quasi eterno, scrive lei. Irripetibile ma sempreverde nella memoria, traccia incancellabile, concime per l’età adulta. […]. Silvia, Cappuccetto rosso, noi tutti, in quanto esseri umani, siamo deboli e possiamo sbagliare. Perdiamo l’ingenuità e l’innocenza infantili quando incontriamo i pericoli nascosti dentro e fuori noi stessi.
Riceviamo in cambio la saggezza di chi ha superato delle prove fondamentali. E anche vivere è una prova, forse la più necessaria e ardua. Percepire la giovinezza alle nostre spalle. Non poter più scegliere la vita che avremmo voluto. E allora i corvi giorni di Silvia. Ma senza lamenti, senza autocommiserazione. La sua è una non rinuncia. E il lieto fine, se non dall’amore, verrà dalla poesia e dal suo potere taumaturgico.[…]”
dalla prefazione di Gabriella Montanari
*
RELIQUIA
È così che ricordo il tuo corpo ? sole minuscolo ingoiato da un cielo di lucciole e assenze ? come candido marmo, una perla screziata di buio per ogni silenzio che custodisci con mani di neve
Pochi giorni, le creste spampanate dei soffioni turchini che si agitano in questa distanza al rallentatore, di paura in paura, e tu sei una statua bellissima, terribile, senza occhi né voce, reliquia del mio desiderio
Voglio tenerti ? un ossicino traslucido una ciocca di capelli velluto una goccia di sangue carminio anche un dentino per la fata che sono quando ti rubo il respiro ? contro il mio cuore o nella teca dell’ombelico, voglio che l’odore di muschio che ti sboccia umido in un’ombra del collo mi si arrampichi addosso, lungo la schiena
Quando tornerai ad abbracciarmi avrò cresciuto un piccolo bosco d’inverno, bianchissimo, dentro le vertebre e in bocca.
SILVIA
Tamara era un nome di spezie, ambra
il colore della pelle e il corpo sodo
che non ho avuto mai, così me lo immaginavo
portando a spasso tutti gli spigoli delle mie
vocali ? Silvia invece è un nome docile,
pensavo, di quelli che un uomo non si azzarderebbe
a sospirare di piacere, al limite silvestre
di un verde da piantina coltivata dietro una tenda
di cotone liso, chissà come sarebbe, mi dicevo
all’improvviso, avere il nome dell’amica immaginaria
che nei giochi dell’infanzia mi teneva compagnia,
? Ronca un volo di immaginazione
che tra le labbra di sicuro avrebbe un punto
di domanda ? ma che nome buffo, da dove viene?
Silvia compare poco nelle canzoni e di poesie
ce n’è ingombrante una, che lei alla fine muore giovane,
insomma, tutta un’attesa che sa di primavere e rose
e crinolina e danze di farfalle, anche loro poverine
destinate a scomparire presto.
Io volevo un nome esotico che mi facesse il seno bello
e l’andatura da valchiria, ma mi è capitato in sorte
d’essere due occhi troppi grandi e l’insistente vocazione
al sì con tanto d’eco verso il cielo, due pini sulla via
dello stupore dove mi arrampico con questa mia paura
di cadere intera sull’ultima lettera aperta
come una bocca d’aria piena, prima dello schianto.
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