Murid al-Barghuthi nasce nel 1944 a Dayr Ghassani, vicino a Ramallah, oggi capitale de facto della Palestina situata nel West Bank. A metà anni ’60 si trasferisce al Cairo per gli studi e durante l’ultimo anno di college inizia il suo esilio: la Guerra dei Sei Giorni del 1967 con la successiva occupazione israeliana del West Bank gli impedirà di tornare in Palestina, che rivedrà solo nel 1996. Finita la guerra, per quattro anni insegna all’Università in Kuwait, e parallelamente iniziano a comparire su riviste egiziane e libanesi le sue opere in versi. Nel 1970 sposa la scrittrice e critica egiziana Radwa Ashour, conosciuta negli anni del college, con cui avrà un figlio, Tamim, nel 1977. Le loro vite, però, rimangono a lungo divise tra il Cairo, dove Radwa insegna all’Università e da cui Murid fu esiliato nel 1977, e Budapest, dove Murid fu rappresentante dell’OLP per qualche anno. Dal 1972 pubblica tredici raccolte di poesie e due romanzi, per il primo dei quali, Ho visto Ramallah (Illisso, 2005), gli fu assegnato il prestigioso premio Naguib Mahfouz nel 1997.

Giochiamo che io sono un profugo. In risposta a La Lettura/Corriere della Sera del 18 agosto 2018 (di Fabiano Alborghetti)

39403787 285544388901121 1640337895417970688 nA sei poeti abbiamo chiesto di immaginare le vite di sei profughi. Per dare voce a chi non ce l’ha più“. Questo è apparso a tutta pagina su La Lettura (Corriere della Sera) il 18 agosto 2018: un articolo a firma di Cristina Taglietti che titola “Dormono in terre e mari stranieri. La Spoon River dei migranti” e dove, partendo dall’omonima raccolta di Edgar Lee Masters (che narrò le storie dietro i nomi di un cimitero di campagna), si circumnaviga (facendo turismo nel dolore) il disastro delle migrazioni e degli sbarchi. 

La scelta editoriale non è stata quella di chiamare scrittori o poeti che sulla linea del fuoco hanno vissuto e per raccontare davvero che cosa significhi migrazione o la condizione del profugo. Si è preferito invece convocare scrittori che dal proprio salotto hanno versificato “immaginando che”. Eppure di autori che sono stati bagnati dalle lacrime e dal sangue della migrazione ce ne sono. Escludendo il sottoscritto (L’opposta riva del 2006 e L’opposta riva dieci anni dopo del 2013; una raccolta di poesie scritta dopo aver vissuto 3 anni coi migranti, arrivando a essere pestato dalla polizia, essere messo in stato di fermo ed essermi anche ammalato per cattiva alimentazione e pessime condizioni igieniche), possiamo convocare Fabrizio Gatti, giornalista de L’espresso e autore di Bilal. Viaggiare lavorare e morire da clandestini (Bur, 2008) che il viaggio dei clandestini lo ha fatto veramente, dall’Africa a Lampedusa; oppure rivolgersi all’estero chiamando il tedesco Gunther Walraff, saggista e giornalista sempre “sotto copertura” (acquistabile anche alle nostre latitudini perché ben tradotto in italiano) oppure si sarebbe potuto chiedere ai migranti della Cooperativa “Il Cenacolo” di Fiesole che hanno dato il via al bimestrale “La nostra voce” (per citare almeno un caso ma sarebbero centinaia, basta cercare in google) oppure, per sapere davvero cosa vuol dire scontrarsi con la realtà dell’essere diverso in una terra di non accoglienza, scegliere una voce figlia della letteratura migrante, visto che esiste un corpus di opere letterarie sviluppatosi in Italia già a partire dai primi anni novanta e tra i tantissimi, estraiamo dal cilindro Igiaba Scego o Pap Khouma.

      Migranteclandestinorichiedente asilo, profugo, rifugiato, immigrato. In realtà è tutto un brodo dove uno vale l’altro (come la politica, praticamente ovunque, ora insegna), anche se il termine profugo è una esclusiva tutta italiana: è infatti un termine non rilevato in tutte le altre lingue[i]. L’articolo che indico nelle note bene indica le differenze (e vi invito a leggerlo).
      Volendo però immaginare la voce di sei profughi (come ci chiede il Corriere della Sera) quale scegliere? 
Di scelta se ne ha abbastanza, mi sembra. L’ecatombe è in atto ormai dal lontano agosto 1991 quando il mercantile Vlora arrivò al porto di Bari con a bordo 20.000 albanesi in fuga da una terra devastata e da un governo vile e che a oggi (agosto del 2018) è considerato il più grande sbarco di migranti mai giunto in Italia con un’unica nave.

      A quel primo sbarco ne seguiranno altre decine, altre migliaia e tutti a seguito di cannibalizzazioni politiche ed economiche: la guerra in più tappe che polverizzerà la ex-Yugoslavia, l’Iraq della Guerra del Golfo come reazione all’attentato dell’11 settembre 2001 e nel mezzo Sudan, Congo, Darfur, Cecenia, le primavere arabe che iniziano nel 2010 (Tunisia, Egitto, Libia e Yemen), la guerra in Siria (che è iniziata nel 2011 ed ha trasformato una nazione fiorente e occidentalissima in una pietraia) e questo senza dire della fame endemica e del collasso economico di tre quarti delle nazioni dell’Africa sub-sahariana partenzo in primis dalle crisi umanitarie in Costa d’Avorio, Libia e Somalia.

      La politica, in quasi trent’anni da quel primo sbarco, non ha fatto nulla. O meglio: ha decisamente fatto qualcosa, ma solo per aizzare violenza, xenofobia, razzismo e mantenere uno status quo di nullafacenza, spreco di risorse e volgarità morale. 

      Di cosa accada ai profughi (migranticlandestinirichiedenti asilo, rifugiati) mentre tentano di sopravvivere è storia ormai così nota e così inutile da non avere più alcun peso specifico. Non importano gli eccidi, le torture, non importano né la fame né gli stupri (anche di gruppo, anche sugli uomini, anche sui bambini). Un profugo avrebbe molto da dire: sul perché è stato costretto a lasciare il proprio luogo, e sul come è stato “accolto” in un qualunque luogo è riuscito a trovare scampo e di quale sia il suo nome. Ma la voce di un profugo non occorre. Né occorre quella di chi di migrazione se ne è occupato in prima persona facendone letteratura di protesta o divulgazione o di ispirazione morale. Molto meglio fare finta: fare finta di niente, prima di tutto; e fare finta di aver trovato la voce per dare voce a chi non ce l’ha più (ma senza mai averli interpellati) e dire a tutti noi che questa è Cultura. 

 


Fabiano Alborghetti
 Premio Svizzero di Letteratura 2018



[i] Migranti, profughi e rifugiati. Anche le parole delle migrazioni sono sempre in viaggio in Accademia della Crusca http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/migranti-profughi-rifugiati-anche-parole-mig