Teodora Mastrototaro, “Le mucche se non le mungi esplodono (di gioia) — crudeltà sugli animali, un inventario” (Marco Saya, 2025)

Con un saggio di Maristella Diotaiuti

saper vedere tutte le torture
in successione
e
saper non-vedere

Renata Morresi, Bagnanti, Giulio Perrone Editore, 2013

 

 

Chi tortura gli animali paga già nella sua miseria.
Sono contro la debolezza umana e a favore della forza
che le povere bestie ci dimostrano tutti i giorni perdonandoci.

Anna Maria Ortese, Le piccole persone, Adelphi Editore, 2016

 

 

 

Teodora Mastrototaro è tornata alle stampe con un nuovo lavoro, Le mucche se non le mungi esplodono (di gioia) (crudeltà sugli animali, un inventario), uscito per Marco Saya Edizioni, aggiungendo un nuovo, importante, prezioso, contribuito al suo percorso di scrittrice che la vede impegnata da decenni su questioni importanti, oggi senz’altro urgenti e improrogabili, temi che chiamano, che chiedono costantemente di essere indagati, come la violenza crudele e lo sfruttamento brutale degli animali, la riduzione di esseri senzienti e sensibili a oggetti di consumo, la tanto annosa questione antropocentrica e specista, la riflessione sull’uguale dignità di ogni essere vivente.
Sono temi che percorrono le sue opere come un filo rosso, con una perentorietà e una insistenza che diventa materia poematica, programma etico di scrittura e di vita, una presa di responsabilità autoriale e di coscienza umana. Reiterazione dei temi che, quindi, non affievolisce portata etica dei suoi testi, e la potenza del messaggio, anzi l’amplifica, la sovraespone. Di testo in testo, l’occhio indagatore dell’autrice si affina, osserva e registra, diventa sempre più puntuale e penetrante, lucido e inflessibile, plasma e riplasma la materia per restituirci, di volta in volta, un aspetto della realtà umana interno ed esterno all’individuo, alla società, al sistema.
Se, nei suoi testi, cambiano le geografie fisiche restano intatte quelle tematiche ed etiche, e in Le mucche se non le mungi esplodono (di gioia) Mastrototaro si sposta dal chiuso dello spazio-lager del mattatoio, scenario di tanti suoi libri, luogo distanziato e distanziante, non visibile, perciò non perturbante, non immediatamente coinvolgente emotivamente, agli spazi aperti del vivere comunità, alla quotidianità, alla coabitazione, alla convivenza tra umano e animale, vicinanza, contiguità che renderebbe maggiormente incomprensibile ed esecrabile qualsiasi forma di violenza dell’uomo sulle altre creature. Non a caso la maggior parte degli animali di cui si racconta sono quelli definiti “da affezione” con cui da millenni l’uomo ha stretto rapporti di familiarità e di sentimento, e non a caso la maggior parte ha un nome proprio, perché il nome serve ad esistere, ma anche ad entrare in relazione: non personaggi d’invenzione, ma compagni di giornate, coinquilini di un unico palazzo-mondo, come li ha definiti Konrad Lorenz, il padre della etologia.
Il campionario è vasto ed esaustivo, ci sono tutti, randagi, selvatici, domestici e addomesticati. Sono cani, gatti, scimpanzé, orsi, agnelli, uccelli, rappresentanti di ogni genere animale, spesso anonimi ma si chiamano anche Natalia, Oliver, Barney, Orazio, Leone, Angelo, Clarabella, per dirne solo alcuni, e persino Maria, nomi familiari e familiarizzanti. Tutti animali accomunati da un unico, insensato e terribile destino, di essere vittime della crudeltà e della violenza umana. Protagonisti, infatti, non sono gli animali, qui solo esseri sub-enti, che stanno sotto, sopportano, ma piuttosto protagonisti sono gli uomini, essere a-genti, che fanno, compiono un’azione che implica una scelta e una responsabilità della scelta. Il problema, quindi, diventa ontologico, riguarda l’inquieta ricerca dell’uomo nell’uomo, l’esilio e il ritorno, il tempo della civiltà e del progresso, la maturità alla ricerca della parola futura.
È un libro, quindi, che s’inoltra nel sottosuolo dell’umano, dove si aggira il Male, tema tragico per eccellenza, che per Mastrototaro, accogliendo la lezione dostoevskijana, non è, o non è solo, l’incapacità umana di persistere e perseverare nel bene, ma è l’instaurazione positiva di una realtà negativa, il frutto di una volontà perversa intelligente e consapevole di se stessa. Il male, cioè, è prodotto dalla volontà e dalla libertà dell’uomo che non avendo avanti a sé nessuna norma da violare, né etica né legislativa, non ha nemmeno alcuna remora da proporsi e da raggiungere.
Perciò se l’obiettivo più evidente, nei testi di Mastrototaro, è quello di dare voce e visibilità a chi non ce l’ha, di esibire, sovraesponendolo, tutto il dolore gratuito dell’animale per mano dell’uomo, quello più sottotraccia, ma non meno leggibile e urgente, è denunciare la condizione di aberrazione in cui è precipitato l’uomo, e quindi, in prospettiva, il ripensare l’umano, proporre un nuovo modello di comportamento oppositivo a quello derivante dal pensiero-dogma che fa dell’uomo misura del tutto, che cosalizza l’animale, l’altro da sé, e lo rende subalterno, oggetto da usare e consumare, in una società dominata da cornici concettuali e pratiche oppressive.
È su queste premesse che Teodora costruisce il suo libro che si dispone, come ci dice già il sottotitolo, come un inventario del male sotto forma di infinite variazioni, una sorta di rosario che, di pagina in pagina, sgrana misteri dolorosi, come una via crucis che costruisce, tappa su tappa, stazioni di spietatezza e brutalità inaccettabili. Un percorso degli orrori in cui ci si inoltra attraverso un cancello d’entrata oltre il quale l’autrice si premura di avvertire che ci saranno IMMAGINI FORTI, per non urtare la sensibilità dei viandanti, cancello che rimanda, non a caso, alla dantesca porta della infernale città di Dite. Avvertenza che in realtà suona ironica dal momento che vuole proprio urtare le sensibilità, vuole anzi ferire, percuotere, trafiggere, per inchiodarci alle nostre responsabilità, alle nostre scelte in relazione al nostro stare al mondo, a cosa vogliamo essere.
È la personale via crucis dell’autrice, la sua personale catabasi, ma vuole che si traduca nella catabasi di tutti, e attraverso le sue parole farci vedere in modo indelebile ciò che avevamo sotto gli occhi e che non volevamo vedere. Perché succede che Teodora attraversi, come poeta e come persona, zone d’ombra e d’orrore e che poi ne esca per raccontare quello che ha visto, si fa poeta-minatore, come diceva Caproni. Perché Teodora Mastrototaro è, per dirla con Anna Maria Ortese, di Quelli che vedono il dolore, l’abuso; vedono la bontà o l’iniquità, dovunque siano, e sentono come dovere il parlarne.
Altro cancello si chiuderà al termine con altra epigrafe, Attenzione! / Cancello in movimento. / Lasciare libero il passaggio / di giorno di notte / di vita di morte, che non promette verticali salvifiche uscite a riveder le stelle, ma piuttosto apre su scenari mortiferi che si ripropongono nella loro circolare e orizzontale serialità.
La materia, dunque, è difficile, bruciante, intrattabile, a tratti insopportabile. Per questo l’autrice per maneggiarla e raccontarla, qui e altrove, ricorre al distanziamento ironico, alla visione esterna, allo sguardo come da una torre di controllo, che abbraccia tutto dall’alto e dal fuori, e, in particolare ne Le mucche se non le mungi esplodono (di gioia), abbandona qualsiasi ricorso alla fabula, all’intreccio, al medium del personaggio, alla finzione letteraria, rinuncia a qualunque soggettività assertiva del sé, preferendo un io depotenziato di ogni centralità. Si affida del tutto alla rappresentazione oggettiva dei fatti, della realtà, alla freddezza del reportage da enunciato giornalistico, alla inoppugnabilità del documento. Ricorre all’immagine che dice senza interpretare, che è oggettiva, che non lascia margini di interpretazioni, di incertezza, inchioda ai fatti, senza scappatoie o giustificazioni.
È una scrittura, quindi, che sembra voglia liberarsi dell’autrice e della pagina stessa, per farsi immagine, fotogramma, cinematografica, la stessa immagine del cancello che si apre e si chiude rimanda ai titoli di testa e di coda di un film o di un documentario, e la scritta Immagini forti è indizio evidente di una volontà filmica. È come se la parola non fosse più capace di dire, di tradurre il mondo, di descrivere e interpretare la realtà. La scrittura che abdica a se stessa perché non può significare ciò che è indicibile, inaccettabile e incomprensibile, come la sofferenza provocata dall’uomo su altre creature viventi e senzienti.
Nessuna esondazione sentimentale da parte dell’autrice, l’adesione emotiva non è sufficiente, più efficace la notizia, nuda, cruda, il trafiletto che rimanda, con un legame semantico, quasi una figura etimologica, allo staffiletto, quindi alla frustata che lascia segni, incide, ferisce. Perché la sua scrittura vuole essere, ed è, arma contundente, atto, gesto linguistico, performatività linguistica, che vuole far male, scuotere, destabilizzare, grazie anche all’uso strategico dell’antifrasi, dell’ironia, del calembour, del bisticcio, della polisemia, figure che sono, soprattutto l’ironia, un logos decentrato, un’alterazione del logos e quindi tagliano, rovesciano schemi e verità precostituite, ogni pensiero dogmatico, spingono fuori dal punto di vista statico e consolidato.
Ma proprio in questa postura, da Cassandra contemporanea, nella sua aritmia con il pensiero dominante, in questa esibita freddezza sulla pagina, nella frizione percepibile tra ciò che vuole dire e ciò che dice, sta la potenza del messaggio di Teodora, della sua denuncia, la forza della sua provocazione. Postura che diventa immediatamente politica perché si intreccia inevitabilmente con questioni legislative, sociali, e culturali ed etiche che hanno a che fare, tra le altre cose, con forme e pratiche di violenza agite sui corpi di altri e di altre senza alcuna giustificazione, semmai la violenza potesse avere una qualche giustificazione, dentro una pratica di lotta che vuole essere trasformativa e sovversiva, non solo denunciativa che passa attraverso una scrittura militante, una forma di attivismo culturale. La nostra autrice assolve così, pienamente a quella che, secondo me, deve essere la funzione principale della letteratura, della poesia, dell’arte, di sovvertire, mettere in crisi, aprire le crisi, problematizzare, aprire tagli, ferite . E di crisi e di ferite, non a caso, ce ne sono tante nel testo di Mastrototaro.
E ironico, nell’accezione di rovesciamento, è già il titolo che, se suona immediatamente straniante, già introduce efficacemente al tono del testo e al suo vero significato, con il suo iniziale riferimento, da fumetto rasserenante, da libro per bambini ingenui e angelici e candidi, all’immagine della mucca-mamma-tutta-mammelle e prodiga di latte perciò necessitante di cura e attenzione da parte dell’uomo, ma che subito dopo rivela la sua vera portata di significazione nella annunciata, minacciata, deflagrazione materica, corporea, che nulla ha a che vedere con le fiabe e le favole ma piuttosto con il dominio dell’uomo che se le canta e se le suona per giustificare ogni suo atto brutale e sopraffattore, mortifero sulle altre creature, caricando di una valenza positiva un’azione che, viceversa, è violenta, ferente e sfruttatoria.
Ma tutta l’architettura del testo, la sua struttura formale, la sua mise en page, vanno in questa direzione. La scelta della prosimetria, del binomio oppositivo prosa/poesia, proprio perché formati da due qualità contrapposte, servono a Mastrototaro per evidenziare iconicamente l’opposizione superiorità umana/subalternità animale, per rendere evidenti i classici binomi su cui si fondano la cultura e il pensiero occidentale – natura/cultura, umani/animali, uomo/donna, visibile/invisibile, dentro/fuori, e così via. Analogamente la scelta cromatica del bianco e nero, da parte della illustratrice Alessandra Antonini, sembra rappresentare il pensiero dicotomico, gli estremi in opposizione, senza sfumature.
Tra l’una e l’altra parte, sulla pagina si apre uno spazio bianco, vuoto, dove naufraga l’umano e con esso la significazione, precipita il senso, uno spazio che dice l’indicibile, dal momento che certi fatti, certi comportamenti umani, certe sue azioni crudeli, sono indicibili alla parola ma dicibili solo per vuoti, per collassi, per silenzi. Uno spazio per dire-senza-dire il Male, ma anche una sorta di non-luogo, una eterotipia, uno spazio di resistenza, differenza o deviazione, che funziona anche come camera di decantazione in cui l’autrice raccoglie se stessa e (ri)elabora il dolore, il lutto.
Nell’ambivalenza prosa-poesia è incistata l’idea della subalternità, di “quello che sta sotto tra due”, allo stesso modo il testo poetico sta sotto a quello di cronaca, specularmente alla posizione che la poesia occupa in una società utilitaristica come la nostra in cui è considerata marginale, innecessaria, anzi inutile, a volte dannosa, al massimo esornativa, o terapeutica e consolatoria. Ma la poesia di Mastrototaro non è consolatoria o sanante e nemmeno riesce a riscaldare la freddezza del dato di cronaca, anzi di questo si fa camera d’eco, strumento di amplificazione. Le domande restano aperte, riproposte, ribadite, la poesia non risolve, non cura, non abbellisce né salva il mondo, non salva dall’inumano, dalla crudeltà e dallo strazio, ma certo può essere una presa di responsabilità, un atto di vigilanza, di attenzione costante. Mastrototaro persegue il suo scopo non solo cercando indizi nel mondo, facendo appello alla cronaca, agli episodi, ai fatti, ma anche, e forse soprattutto, attraverso la più gentile e la più potente delle rivoluzioni, la poesia, che partendo da posizioni marginali le trasforma in punti di forza, attiva sguardi obliqui, vede ciò che non si vede più, comprende, resta attenta davanti e dentro e anche lontano ai fenomeni del mondo.
La rivoluzione di Teodora passa, quindi, attraverso il linguaggio che diventa luogo di possibilità, spazio da cui può librarsi un pensiero capace di sovversione e di cambiamento della cultura e delle strutture sociali ed economiche. Già la filosofa Hèlené Cixous individuava nella risata-linguaggio di Medusa, altra creatura marginalizzata, demonizzata, diminuita, la possibilità di mandare in frantumi ciò che crediamo inamovibile e mettere a soqquadro le superfici ordinate e ben placate del nostro pensiero.
In questo senso i versi di Le Mucche se non le mungi esplodono (di gioia) sono canti di metamorfosi, e creano una lingua che non domina, non contiene o trattiene ma piuttosto rende possibile. Per questo è possibile a Teodora, in questo scenario duro, terribile, spietato di violenza su creature inermi, sensibili e senzienti, gettare una luce se pur flebile, di salvezza, e a noi intravedere in filigrana, nel testo, una pars construens riparativa di una inflessibile e rigorosa pars destruens, individuare nel binomio inscenato da Teodora non solo la contrapposizione ma anche una polarità in cui i due poli sono complementari e interconnessi, dove il duale parla di due, ma racconta di uno.
Così, a livello testuale, si crea un cortocircuito fra la parte in prosa e quella poetica, che fa della seconda parte ripresa e commento della prima, e i due poli, umano e animale, ma anche prosa e poesia, sono così in relazione simbiotica o di cooperazione, in relazione. Una relazione con l’altro che, come dice Emmanuel Levinas, non è neutra, perché l’altro mi interpella e mi chiama alla responsabilità etica, incondizionata, a un dovere di cura e di rispetto che va oltre il tentativo di assimilazione o di dominio. Integrare i duali, integrare se stessi nel mondo con tutti gli altri esseri. Senza sofferenza. Così Judith Butler che vede nella relazione il vero nucleo imprescindibile per la costruzione del sé, perché siamo, sin dall’inizio, consegnati all’altro. Esistere significa letteralmente essere al di fuori di sé, essere un confine permeabile, una tensione desiderante esposta agli altri.
Anna Maria Ortese già prima è arrivata agli stessi esiti, se pur per altre vie, con altro stile, altro coinvolgimento emotivo e un modus cogitandi che potremmo definire cognitivo-empatico. Ortese va oltre il semplice sentimento di empatia passeggera, per affermare il valore della compassione, cum-pati, come partecipazione profonda alla sofferenza dell’altro, mettersi accanto a chi, e a cosa, è intorno, e di condividere l’avventura dell’esistere con le varie forme di realtà che sono vicine.
La compassione diventa così la misura dell’umanità stessa: un uomo compassionevole è un uomo pienamente vivo, mentre un uomo che ignora il dolore altrui è un’ombra, una presenza irrilevante nel grande flusso dell’esistenza.
La compassione, però, per Ortese come per Mastrototaro, non deve essere, e non è, solo un sentimento astratto, ma è una spinta all’azione. Non basta provare pietà per chi soffre, bisogna agire, soccorrere, intervenire. È l’etica della responsabilità, il dovere di non restare indifferenti di fronte al dolore altrui e attivarsi perché non accada più.
La lezione, sottende l’autrice, ci viene già dagli animali, nella silenziosa, sotterranea, ma riaffiorante testimonianza della loro civiltà. Animali come insospettabili maestri, su come si possano rivedere bisogni, distanze, incontri, mutando l’altezza degli occhi e la lunghezza delle zampe, mettendoci al loro posto. La raccolta, infatti, si apre con Natalia, femmina di scimpanzé di ventuno anni, per oltre tre mesi ha portato con sé il corpo esanime del figlio, nato a febbraio e morto quattordici giorni dopo la nascita. Da allora non lo ha più lasciato, tenendolo sempre con sé, accarezzandolo e toccandolo delicatamente col muso, nonostante il processo di decomposizione in corso. Esempio animale tragicamente sublime di pietas e di cura che ci pone di fronte alla morte degli altri ma anche alla nostra morte, come genere umano, che stride, si eleva in frizione, nel confronto con la opposta insensibilità e crudeltà umana dei racconti successivi. Un atteggiamento di cura tanto normale per Natalia e pure d’eccezione e nobile e commovente, da allargarsi fino comprendere anche le larve, figli di altra madre, che mangiano il proprio figlio. Immagine potentissima e straziante, bellissima pur nella sua tragicità, La carne morta / produce mosche. / Femmine depongono / le uova… / questa madre / -tra le braccia- / non resta sola. / Cullare altri figli schiusi nella morte.
Mastrototaro raccoglie tutte queste eredità, letterarie, filosofiche, scientifiche e animali, e le porta a compimento con esiti del tutto personali, e su queste basi ci indica una possibile strada, una via di salvezza, per ripensare l’umano e per una esistenza più giusta e rispettosa. Solo ospitando l’alterità e l’altrove, la costituzione dell’altro dentro di noi, accogliendolo e apprezzandolo nei suoi valori, ci consente di scoprire ciò che a noi manca o ciò che abbiamo perso, e di fare nostri i valori di altri popoli, altri esseri, altre creature, e di ritrovare la nostra umanità, natura, storia.
Per questa via, alla fine, si può anche risemantizzare la prosimetria e il binomio cronaca-poesia come momento di mescolanza degli elementi, e lo spazio bianco tra prosa e poesia che avevamo letto all’inizio come il luogo della resa dell’arte, della scrittura, e dell’umano, come una faglia di separazione fra due universi monadici, un muro dell’indifferenza che divide, ora, attraverso la scrittura, dopo l’esperienza della scrittura, si fa, viceversa, porta di accesso per quella realtà, quel mondo più giusto da cui siamo stati esiliati e che la poesia può ancora restituirci, una poesia che è il primo passo sulla via del ritorno da quella diaspora dall’umano che ci ha dispersi, divisi e alienati.
Teodora Mastrototaro ci consegna un libro ustionante, indigesto, ferente, che ci inchioda alle nostre responsabilità, alle nostre scelte in relazione al nostro stare al mondo, a cosa vogliamo essere, ci interroga sulla nostra natura di esseri umani.
Di fronte alla scrittura di Teodora, poetica e non, nitida e tagliente, non si può far finta di non vedere, di non sapere, di ignorare e giustificare la violenza perpetrata a più livelli sugli animali, che è parte della violenza più generale sugli uomini stessi e sulla Natura, nel nuovo secolo e nel nuovo millennio, con i massacri che già ci sono ancora più grandi, tutte violenze all’interno delle stesse logiche ideologiche, biologiche, economiche e militari. Un libro, quindi, fecondo, fertile perché le idee che si agitano nei suoi libri smuovono molta terra, seminano molti semi.
Ma è anche un libro tenero, amorevole e commovente, compassionevole e premuroso. Un controcanto che è pur sempre un canto, in cui convivono sia il grido individuale, di dolore, di ogni singola creatura, che il ri-suonare ancora e insieme, all’unisono, tutte le creature del creato.

 

 

Maristella Diotaiuti

 

 

 

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18 maggio 2024 Zoo di Valencia, Spagna – Natalia, femmina di scimpanzé di ventuno anni, per oltre tre mesi ha portato con sé il corpo esanime del figlio, nato a febbraio e morto quattordici giorni dopo la nascita. Da allora non lo ha più lasciato, tenendolo sempre con sé, accarezzandolo e toccandolo delicatamente col muso, nonostante il processo di decomposizione in corso.

 

 

Immobile
a curare il corpo
finché il restare
diventi vivere.

 

 

 

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Abbassare le palpebre
per serrare il figlio
in una fossa
per abitare spoglia
i suoi detriti.

 

 

 

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La carne morta
produce mosche.
Femmine depongono
le uova…
questa madre
-tra le braccia-
non resta sola.

 

Cullare altri figli schiusi nella morte.

 

 

 

dal 2019 Dipartimento di medicina e chirurgia, Parma – Alan e Larry, due giovani macachi, sono rinchiusi negli stabulari dell’Ateneo parmense per l’esperimento light-up, un progetto che utilizza i macachi per studiare una rara forma di cecità derivante dai traumi. Questa cecità viene indotta negli “esemplari” tramite operazione chirurgica.

 

 

La punta del bisturi fa della cella
una stella che scrocchia
un mezzogiorno invecchiato,
il tramonto.
Domani moriranno gli occhi
il nervo cometa coda in giù
fino all’eclissi.

All’alba, se apri gli occhi,rimane buio.

 

 

 

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Vi hanno impiantato
una telecamera
nel cranio
così da riprendere
le quattro pareti
della cella,
la fine del mondo.

 

 

 

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Così si sopravvive
tra le mani di un chirurgo
col bisturi
cade la gabbia in lutto.
Scavando la vista si scava
la fossa comune.
Dopotutto è carne tumulata.

Non riuscire neanche a vedersi morire.

 

 

 

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Maristella Diotaiuti, di formazione universitaria (Università Federico II di Napoli, Lettere Moderne), è stata curatrice e promotrice degli eventi culturali del caffè letterario Le Cicale Operose, Livorno. Già presidente dell’Associazione culturale Le Cicale Operose APS. È autrice e curatrice del volume Beatrice Hastings, in full revolt, Diotaiuti, Tortora (Le Cicale Operose, 2020). È autrice della raccolta di poesie: Come cosa viva (Terra d’ulivi Edizioni, 2021). Sue poesie compaiono su riviste e blog letterari. Tra i libri da lei curati si segnalano alcune opere della scrittrice inglese Beatrice Hastings: Woman’s Worst Enemy: Woman (Astarte Edizioni, 2022), Sepolcri Imbiancati (Terra d’ulivi Edizioni, 2024) e La Commedia delle fanciulle (Terra d’ulivi Edizioni, 2025).

 

Teodora Mastrototaro, poetessa, drammaturga di testi teatrali, attivista per i diritti animali, antispecista. La sua ultima pubblicazione di poesia antispecista è Le mucche se non le mungi esplodono (di gioia) (crudeltà sugli animali, un inventario) pubblicata da Marco Saya Editore. La silloge Il piano Finale, che affronta il tema del grattacielo (allevamento – mattatoio) dei maiali in Cina, è stata pubblicata sulla rivista di critica antispecista Liberazioni, n°57. Da Aprile 2024 sta portando in scena il suo monologo teatrale Il Riflusso – dalle reali testimonianze dei lavoratori dei mattatoi, pubblicato sulla rivista di critica antispecista Liberazioni, n°51. La sua ultima performance è Per il nostro bene — performance sulla sperimentazione su animali vivi, con il ballerino Stefano Di Martino.

 

 

 

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© Fotografia di proprietà dell’autore