Milo De Angelis, “Poesie dell’inizio” (Mondadori, 2025)

Nota di Mario De Santis

 

Da dove ritornano le Poesie dell’inizio di Milo De Angelis? La storia del manoscritto di poco più di cento poesie da cui sono tratte le 51 che compongono la raccolta uscita con questo titolo nel febbraio 2025 nello Specchio Mondadori, è nota.

Scritte, come recita il sottotitolo, tra il 1967 e il 1973, furono restituite da Angelo Lumelli (poeta e sodale di De Angelis fin dagli anni della adolescenza e prima gioventù, scomparso nel 2024) in occasione dei quarant’anni di Somiglianze, l’esordio ufficiale nel 1976 di Milo De Angelis (e che oggi possiamo anche considerare, osservando queste poesie diventate “libro” una sorta di secondo inizio). Alcune erano già in coda al volume Tutte le poesie del 2017, così come sappiamo che Milo De Angelis aveva pubblicato poesie, a 22 anni in Tam Tam (1973), poi a 24, nell’Almanacco dello Specchio (1975) , che anticipava l’esodio del venticinquenne con Somiglianze.
Di fatto però ci sembra significativo il venire alla luce oggi del (possibile) “primo libro”, in cui si scontrano le forze della composizione di testi in un’opera creata adesso, sebbene con i testi scritti allora. Dunque, di quando è questo libro? Si può spezzare la linea della cronologia, forse e l’opera completa del poeta diventa un campo, senza prima né poi.

Proporrei di considerare Poesie dell’inizio come un libro che trasforma in testo un tempo dell’antecedenza, che il lettore di De Angelis intuiva da sempre, un’epoca in qualche modo del mito, che stava prima dei 25 anni dell’esordio, verso l’adolescenza. Siamo abituati culturalmente a pensare al mito come ciò che precede il racconto del mito, la scrittura.

Il cortocircuito è scoprire oggi l’adolescente di allora, immerso nell’immediatezza del suo vivere (età fondamentale per la poetica di De Angelis) che è insieme già-poeta che scava verso altri tempi, verso quella che definirà come l’essenza della poesia ovvero un “mondo precedente” . Lo stesso Lumelli nella postfazione a Poesie dell’inizio invitava a non considerare la cronologia e a fare “una lettura in contemporanea di queste poesie provvidenziali, che non riportano indietro ma che aprono un varco” : possiamo definirlo un varco da un tempo parallelo, poesie di un ventenne che lo è anche oggi. Se spezza la cronologia, Poesie dell’inizio può spingere ad una sorta di messa a punto del modo della sua composizione. Uso questo termine traendolo dal saggio di Roberto Galaverni Carte correnti su alcune figure del ‘900 poetico italiano che si chiude con De Angelis. Il quale parlando della sua poesia, scrive Galaverni, accennava al processo che nei suoi testi segue il linguaggio: come una aggregazione di parole che “si riconoscono nel movimento della sintassi e delle frasi”, arrivando a diventare versi che al poeta sembrano come “giunti da zone lontane”.

Allora cosa ha creato questo libro giunto dalla lontananza di 40 anni? Non c’è solo l’evidente ricostruzione di un’evoluzione stilistica che sarà compito dei filologi definire, mi interessa qui l’azzardo di tematizzare il ritrovamento in un processo di archeologia viva che sta dentro il disegno sia tematico che stilistico di De Angelis nel corso della sua opera. In esso ha un ruolo importante la tensione attiva verso (e da) un prima assoluto, quel qualcosa che è prima di noi” – scrive De Angelis che tuttavia colloca allegoricamente in infanzia e adolescenza un tempo in qualche modo collegato da un’aderenza istintiva a quel prima . La forza magnetica dell’antecedenza compare da subito, in Somiglianze (“L’inizio è più in là dell’arrivo”; “il mistero della rétina/ dice altro (..) la preistoria/ di un inizio e si deve ridere/ quando le strade tornano normali”; “manca soltanto un passo/ per giungere all’inizio” ). L’inizio, che il venticinquenne indicava voltandosi verso l’infanzia, aveva già un precedente compimento testuale, un libro composto in un’età prossima e anch’essa poi divenuta mito (l’adolescenza) ma rimasto in potenza mai pubblicato ma come di fatto mai esistito. Nella forma malinconica delle poesie che seguiranno, De Angelis in qualche modo associa quel tempo dove “eravamo già stati” anche quella immediatezza della vita che fu l’adolescenza, un tempo che non aveva bisogno di farsi traccia.
Arrivandoci tra le mani oggi, le poesie rivelano un inizio in cui il poeta aveva già rotto l’incanto, tracciando in presa diretta qualcosa di quell’essere stati. Arriva a noi, 50 anni dopo, a “immemorare” il presente di quel tempo. Non è un recupero archeologico acquisito ma ci piace pensare Poesie dall’inizio come creato ora, libro del presente, un colpo di scena compositivo, nella sua tessitura di rimandi in cui per De Angelis c’era anche una sigillata fermezza nel non pubblicare niente che non fosse messo nei libri. Come cancellando scartafacci. Questo Poesie dell’inizio non lo è, infatti, ma pure appare adesso, mutando sfumature nella costellazione della sua opera, si immette nel vortice del divenire, con l’“immemorare” di un prima che sta dentro la storia, in cerca ancora adesso il suo compimento, avendo sfidato anche il non-esserci, esistenziale.

Infatti di quello ci parla questo Poesie dell’inizio, di una visione così perentoria della poesia che contemplava anche la rinuncia a scrivere, se non addirittura quella a vivere, ma come atto supremo di fedeltà ad un assoluto che nessuna poesia può, né poteva, dire e che stava cronologicamente prima di Somiglianze. Ora invece appare questo libro che al tempo stesso ritorna da quel tempo antecedente l’inizio testuale.

È in fondo una variazione del tema del ritorno che Luigi Tassoni invita a notare come si trovi da subito in questo libro aurorale (“Così ritornavano”). Da subito la voce del poeta si dichiara in attesa di una “gioia/prima di questa coscienza” a cui chiede: “ridammi l’essere vicino/ prima, prima..”. Oggi quel prima, evocato in tanti testi successivi come un tempo del gesto, dell’atto assoluto ci ritorna come libro. “Solo nel ritorno si attua la nostra attesa più urgente ovvero sapere cosa ci è veramente accaduto” – scrive Milo De Angelis – “nel fondo misterioso che sostiene la nostra esperienza” . Tralasciando le implicazioni biografiche e traumatiche (anche se il poeta è, col tempo, sempre più generoso di aneddoti, memorie personali) conta di quell’accaduto che esso è ciò “sostiene la nostra esperienza”: in quella chiave dell’ immemorare, si individua in esso l’energia di un processo psichico che presiede anche la composizione poetica, tensione agonistica di un prima che si tiene pronto a compiersi come futuro proprio per il suo esserlo sempre stato, manifestandosi nel “Qui e ora” del testo, una temporalità intesa come presente gassoso che scardina ogni ordine del tempo: “non esiste né qui né ora” perché” – sono ancora parole di De Angelis – “esistono diverse congiunzioni tra lo spazio e il tempo, tra storia e mondo. Un’opera poetica, anche la mia, le conosce tutte” . Nell’imminenza del suo 74mo compleanno, De Angelis pubblica un libro nuovo, con poesie scritte tra i 17 e 22 anni. Gli anni del prima, dell’“accaduto”. Testi custoditi, perduti? Destinati per molto tempo a restare carte mute. Un blocco di fogli come res amissa, per dirla con Caproni (De Angelis racconta: “le cercavo e non le trovavo”) in cui emerge come la partita esistenziale del poeta, e di conseguenza della sua poesia, sia stata giocata sul filo del rischio tra il “tutto” e il “niente”, in quella forma di “perentorietà”, come la definisce Tassoni, che avrebbe assunto la scelta del suo procedere grammaticale. Il rischio era dovuto alla scelta assoluta della morte, che era un tutt’uno – leggiamo in queste poesie riapparse ora – con la scrittura ed esplicitate nel tema del che spicca più di altri in Poesie dell’inizio, quello del “suicidio”.

Cancellazione di sé, scelta drastica da poeta per consegnarsi all’assolutezza inesprimibile che era sempre in gioco, tanto quanto per sfuggire a un’oppressione della storia. Fa da contraltare in questi versi solo l’epica del gesto atletico (speciale aura di eros del corpo come quello di Deriliana e le altre giovani amazzoni compagne di imprese sportive) come istante in cui sembra sia possibile catturare velocemente al di qua della barriera della morte, il bagliore di una perfezione possibile. Se la morte è sempre stata un orizzonte di significato per Milo De Angelis, come poeta del tragico, qui si concentra sul gesto del suicidio come un’uscita dal tempo, dal presente storico con cui sente il contrasto: “essere reale, con te, solo sfiorata/ nei cinema. / Dire che schifo al tempo: e ci resiste”. Concepire con lei quindi “un’accusa” a quel tempo “se passa/ senza di noi/ la vita che dovevamo” . Siamo negli immediati dintorni del 1968: esplosione giovanile, certo, ma anche anno dell’astro bruciante di Ian Palach il giovane che si suicidò a Praga contro l’invasione sovietica.

C’è sfiducia nel poeta di quel tempo verso le ideologie storiche: “Nemmeno le tue idee/ che dicono tutto schifoso sono/tue. Ma il terrore sì”. Agli anni del terrore storico, l’unica exit possibile è un “atto di consenso” , darsi la morte, e non importa se siano visioni giudicate “sciocche/privatissime storie/ in mezzo a guai generali” . In mezzo alla “paura” (parole che ricorre spesso) esistenziale, di questo ventenne, controcorrente, c’è il fiume del secolo: il “novecento / impietoso” che “ha definito il suo tempo/ non chiesto e ti consuma”. Come da tradizione romantica, in un misto di coraggio e ingenuità, il giovane poeta è sfidante, eroico: “Metterò il piede sotto un treno/ e poi il mio corpo/ per vendicarmi” (ricorda il coetaneo Leopardi di “All’Italia”, che però voleva combattere). Oppure: “Ormai è la generazione seguente/ che penserà la morte attraverso la nostra” . C’è un’eco di mitologie e beau gest (“una sola bella azione: distruggersi” ), ma qui, leggiamo questa malinconia tragica di chi ha una vita davanti e la contempla già come non-accaduta, o meglio: sul filo del rischio cedere all’idea che il suicidio sia quell’assoluto cercato e trovato in una potenza che si mantiene tale sottraendosi alla vita. Mantenersi in quel “prima”, tendere a un ritorno totale, tensione di antecedenza, verso la sorgente – anche biografica – di antenati, come si legge in un testo che poi confluirà modificato in Somiglianze: “sto crollando sfinito in mia madre” (a cui fa eco, sempre nel libro d’esordio, la “quiete” di una donna che “partorisce” su un prato “finché il figlio ritorna nella fecondazione”). Tra il 1966 e il 1973 sta l’arco teso della vita e dell’eros, che in questo libro non a caso si chiude con l’esclamazione “vita!” (rivelatasi ancora una volta con l’“oscura presenza” erotica della ragazza che gioca a calcio nel cortile di una scuola tutta maschile).

Da poco la comunità poetica italiana ha visto la fine prematura della vita di due autori poco più che ventenni. È oggi che si parla di atti violenti e di adolescenza per una serie tv. La lettura di Poesie dell’inizio riporta a una tensione giovanile, a confrontarsi con violenza e autodistruzione e nel presente di queste settimane torna altra violenza dal passato: la condanna a trent’anni per Marco Toffaloni, ex estremista di destra veronese, che aveva messo materialmente la bomba in piazza della Loggia, e che all’epoca aveva 17 anni. Era il 1974, gli anni in cui De Angelis aveva appena scritto versi che riflettono nel tragico del Sé, paura, storia, terrore, violenza. È solo una coincidenza che mi colpisce.
Così come colpisce che dopo il riemergere del centinaio di poesie dell’inizio nel 2016, il nuovo libro, che è seguito nel 2021, sia stato Linea intera, linea spezzata in cui Milo De Angelis riversa una abbondante e dettagliatissima geografia milanese della memoria di quel prima, di quegli stessi anni precedenti al 1976, come se si fosse sbloccato qualcosa e ora si “ricordasse esattamente” quello che “avvenne” .

Mi colpisce, allo stesso tempo, che, a fronte di questa geografia esatta temporale e spaziale, umana, fatta di nomi, vie, luoghi, Roberto Galaverni, nel saggio citato in Carte Correnti, scelga di analizzare come testo emblematico di tutta la poesia di Milo De Angelis, “Cartina muta”, da “Biografia sommaria” del 1999. Un testo che in qualche modo incrocia temi di questa costellazione storica e insieme mitologica di esistenze.
In esso c’è il riferimento (esplicitato in seguito dallo stesso poeta) a Nadia Campana, poetessa e sua amica, suicida nel 1985 (tra l‘altro lo stesso anno di Beppe Salvia, sempre per creare collisioni temporali) .Una figura femminile, anonima nel testo, che il poeta elegge a custode di una sua parte in ombra: non solo psicologica, ma come materia oscura più generale e che De Angelis, riferendosi a questa poesia, ha definito “ciò che non si comunica” , il non delegabile alla parola. Nel testo di Biografia sommaria è detto così: “diverremo quel pianto/ che una poesia non ha potuto dire” . Il pianto di un dolore universale.
Figura femminile che cammina nella notte con il poeta, “silenziosa”, che “non risponde al saluto / del metronotte” è lei che sceglie di restare in immediata e definitiva adesione a quel porto sepolto del dolore inesprimibile. I due nella notte sono al bivio di strade nominate e che però scompaiono come scompare Milano che “torna muta” e “scompare insieme a lei”. Euridice se ne va, nella morte. Orfeo resta. La simbiosi parallela dei due si divide e in quel “diverremo quel pianto” che “una poesia non ha potuto dire” c’è l’impegno di Orfeo a tradire il patto proprio per renderlo definitivo. Con il suicidio, Campana è Euridice che si è girata e se ne è andata, nel gesto di fedeltà a quell’assoluto inesprimibile, restando aderente a quella “comune intransigenza” scrive Galaverni, a quel “ciò che non si comunica”. Il poeta è un Orfeo che non segue Euridice su quella strada (De Angelis dedica una personale rilettura del mito di Orfeo e Euridice commentando L’inconsolabile di Pavese ). Una strada che pure, proprio nelle Poesie dell’Inizio, è il giovane poeta a contemplare e che si sovrappone, nella memoria di lettura, a questo teatro di scelte tragiche tra Orfeo e Euridice.
La sfiducia nelle parole era consustanziale all’ideale di “parola” da cui esigere tutto, quale i due poeti, così intransigenti e rigorosi, avevano maturato, come due samurai della poesia. Tuttavia, la parola è anche una chiamata alla vita da parte della vita stessa, sta in quel “rinascere” con qui si chiude “Cartina muta”, che infatti rievoca, non solo citandole, parole da Somiglianze e rimanda a quei primi anni ’80 di vita con non pochi tormenti. Ma Orfeo-De Angelis aveva già deciso di venire a patti con la lingua della poesia, esigendola perentoria e netta, esatta, scavata dentro quella ferita che resta sempre a solcare la differenza tra perfezione del silenzio (e della morte scelta) e l’esserci linguistico dell’imperfezione che si dispiega nel divenire del tempo. Una lotta che si combatte dall’inizio sul confine di una scelta tra il niente dell’assoluto e il divenire etico di una forma, di una parola che insieme traduce e tradisce quell’assoluto ma al tempo stesso trova una forma tale che diventa quella parola data a sigillo di impegno a tenere viva sempre questa tensione etica extrastorica verso il “rinascere” come futura redenzione che si annunciava da quel punto sorgivo della nascita, quel contatto con un’assolutezza del vivere che sempre si sente insufficiente tanto che percepisce nella morte l’unica possibilità di realizzarsi. È la scelta di Euridice, mentre Orfeo accetta di sfidare la storia per superarla, in un millenarismo che lo univa al fondo al maestro Fortini da cui poi De Angelis si distanziò. Un accettare leopardiano di stare nella storia pur prossima alla catastrofe, la parola anche se non può dire tutto, tiene viva la tensione utopica. Una scelta difficilissima, il poeta mostrerà come lo scacco sia sempre questione di millimetri.

Orfeo resta tra noi umani, come colui che mantiene per noi lo sguardo verso la pienezza e la rivelazione, pur accentando il limite di una malinconia dell’impossibilità. Come ben sintetizza Galaverni “la metrica delle somiglianze e dei millimetri, della precisione e della giustezza massime e pur sempre inadeguate, porta con sé la scelta del poeta di non cadere vittima della propria vocazione oltranzista, di non andare fino in fondo, di non morire.”

 

 

Mario De Santis

 

 

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SCRIVEVA: “SEI SOLO: È UN CERCHIO CHIUSO.
MA UNA VOLTA PUOI APRIRLO
MAGARI CON LA CHIAVE PIÙ FALSA”

 

a Piero

 

Così ritornavano
gli errori penosi perché piccoli
ed era vero: moriva gente
che non è mai stata difesa e talvolta
anche la mitezza è un’oppressione
(e intanto, tutte queste corse
in mezzo al finito, le decomposizioni).
Ma era lì, proprio dietro la parrocchia
e un corpo può squassare
mezza metafisica: la sua spallina forse
è già un seno che si apre
e chiamarla Deliriana sii esistente
come nell’ora del tuo nome e dell’istante
prima dei semafori che ci distraggono
avvenga una gioia, prima di questa coscienza
infelice per distacco, ridammi l’essere vicino
prima, prima…

 

 

 

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DIPENDEVI DA QUELLO A CUI NON SERVI

 

Subendo questa fine
senza capire
per i morti ingiustificati, le tue
domande irrilevanti
in questi luoghi di pioppeti
dove non si incontrano il vuoto o l’ essere
a cui ti volevi fedele. Solo una storia
già decisa: finirai e nemmeno
morire sarà un gesto personale.
Nemmeno urlare dietro un albero
che ti salvi. Ora tutto è semplice:
percorrendo questa campagna
si fa in inverno: un novecento
impietoso ha definito il suo tempo
non chiesto e ti consuma. O ti coglie preoccupato
di lasciare giustificazione: ma senza
punti d’appoggio. Per gerarchie fortunose
di un mattino al liceo, la decisione
di studiare la morte. Ma sai
che è per caso, ora
con il sasso che tiri: ti scopri
nell’ azione e non è possibile
legarla col resto, con la vita devastata
a cui rifiutavi un senso: e lo rifiuti
ma per farlo tu affermi
e non ti dà tregua
in mezzo a piccole foglie, materia
che dopo la negazione
è la stessa. Tra le file
dei tronchi con la nebbia che la chiude
sei dipendenza
da ogni forma, che vedi durare
vicina. Solo resti a rodere l’ avvenimento
il rancore che una negazione completa
lasci immutato
tutto.
Tu hai capito
che la tua vita è inutile.

 

 

 

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CANZONCINA
PER UNA BELLA ALA SINISTRA

 

Aveva i calzettoni abbassati e la maglia bianconera
e noi restammo di stucco: una bella, una vera
ragazza nella squadra avversaria! Sì, una ragazza
con i capelli a caschetto e un guizzo velocista,
un bel sorriso da folletto nel nostro Istituto
maschile per eccellenza. Non era lei a farci paura,
ma un’oscura presenza, un’eco di fiori e sussurri,
di unghie rosse, di spose, di veli, erano quelle vorticose
onde del sangue, le minacce dell’ignoto, era il vuoto
che irrompeva nel cortile gesuita, era la vita!

 

 

1967

 

 

 

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Milo De Angelis (Milano, 1951) poeta, scrittore, critico letterario e traduttore, ha esordito con Somiglianze (Guanda, 1976) seguito da Millimetri (Einaudi, 1983). I successivi Terra del viso (1985), Distante un padre (1989), Biografia sommaria (1999), Tema dell’addio (2005), Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010), Incontri e agguati (2015), la raccolta Tutte le poesie. 1969-2025 (2019) e i più recenti Linea intera, linea spezzata (2021), come anche l’ultimo Poesie dell’inizio (2025) sono tutti editi da Mondadori. Tra le molte traduzioni spiccano le recenti, sempre per Mondadori, De Rerum Natura di Lucrezio (2022) e I fiori del male di Baudelaire (2024), frutto di decenni di frequentazione e traduzione di questi due autori. Autore di un’opera narrativa, La corsa dei mantelli (1979) e di saggi e raccolte di conversazioni tra cui Poesia e destino (Cappelli, 1982), Colloqui sulla poesia (La vita Felice), La parola data (Mimesis, 2017). Ha vinto negli anni molti premi (Viareggio, Mondello, Brancati, Dessì, Gradiva, LericiPea , Prestigiacomo, Versante Ripido).

 

Mario De Santis (Roma, 1964) vive a Milano e ha pubblicato quattro libri di poesia: Le ore impossibili (Empiria, 2007), La polvere nell’acqua (Crocetti, 2012), Sciami (Ladolfi, 2015) e Corpi solubili (Samuele/GiallaOro, 2023). Scrive di poesia, libri e teatro per Tuttolibri, La Stampa, HuffingtonPost, Doppio Zero, PulpLibri e in passato per il mensile “Poesia” di Crocetti. Dopo 30 anni di trasmissioni radiofoniche di attualità e cultura (Italia Radio, Radio Deejay e Radio Capital), ora lavora nella redazione digitale del gruppo Gedi.

 

 

 

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© Fotografia di Dino Ignani.