Nuziale è la notte di Enrico Marià, un talamo imbandito per le venationes; la sentenza è una pena
capitale, il mondo, carapace sbiancato. In questa scarna arena, nel bianco spazio della pagina, riempito di un silenzio tonante, si compie quanto dice Celan: «piangendo ti squarci le vene; piangendo le richiudi». È una voce disarmata, che non ha nulla da perdere o da guadagnare, il grido libero di colui che ha trovato nell’abisso dell’esistenza la Poesia.
Ci vuole il coraggio dei santi e dei dissoluti per la confessio poetica, la forza di amare oltre ogni amabile destino, fatto di amputazioni che sanguinano e che solo la scrittura cauterizza attraverso la testimonianza del martirio e del perdono. Sono occhi che reggono la luce abbacinante, scarabei di calcedonio i versi (Marià li chiama “scarabocchi”, a me piace ricollegare il termine alla sua etimologia magico-sacrale), sigilli monili a forma di cuore, distillati per il lettore che si accinge alla psicostasia. Perché leggere Nuziale necessita un cuore-piuma, incompleto, incompiuto, capace di accogliere, farsi grembo di fronte al quale ogni parola è troppo misera, mai abbastanza per colmare i crateri di un amore smisurato.
Nelle crune del sangue,
dimmi, tornadi del cuoio
esploderanno grani pubici
i crateri del mio amore.
*
Da dove ti amo sono tutte
le parole troppo piccole
e l’impossibile tornarmi
la purezza inattaccabile,
gelato sulle tonsille,
il polline dei nodi.
L’autore di Microliti sottoscriverebbe la dedica di apertura con una delle sue lapidi: «Come nelle case degli ebrei (in memoria di Gerusalemme distrutta), bisogna lasciare sempre qualcosa d’incompiuto.» Ricordare in poesia – ricordare come assenza». È questo vuoto necessario affinché l’esperienza del poeta lasci lo spazio occupabile, la vertigine di cristallo, il movimento oscillatorio oltre il reale, che è l’assoluto.
Solo nella poesia il dolore nudo appare con la sua veste pudica e intatta, solo nel poetare l’orrore che non si può dire, che ti fa turare gli orecchi e chiudere gli occhi diventa grido incandescente, assoluzione e viatico.
Marià si legge con la pelle, con l’epidermide assottigliata dallo strigile affilato dalla pietà, quello forte, inscindibile dall’esperienza della morte assieme al suo lascito di umiltà, di tenerezza.
Se credo il crederti
macella la mia carne
fino al morire,
epilettica sintonia,
l’amore,
la morte parallela.
Nuziale è un evento che accade, che non ha bisogno di essere detto con parole, è la testimonianza questo dire dello sheol dopo l’esperienza brutale del buio più fitto. Tornare alla luce di Marià è guardare attraverso la piaga, lo squarcio che lascia passare lo splendore lancinante di una preghiera autentica. Si sta ai piedi della croce a cercare il senso di tutto attraverso le lenti dolenti delle lacrime.
Scisma dell’aurora
le labbra annullate
ci illuminano la pelle
e tra noi due, dimmi
solo io posso il morire
perché altro da me
voglio vivere
giuramento sacrario
i coralli del lutto.
*
I monconi alati
staccano amuleto
le macerie inarcate
copiando il buio
lo spazio della bocca
le scosse delle croci.
* * *
© Fotografia di Salvatore Slando.