Luca Mozzachiodi (1992) è assegnista di ricerca all’Università della Calabria; si occupa di critica letteraria e teoria della letteratura e di storia culturale. Collabora con diverse riviste e blog. Ha pubblicato il saggio Preparando il Sessantotto: saggisti e scrittori nelle riviste della nuova sinistra ed è in uscita la raccolta di saggi Gli scacchi di Brecht. Ha pubblicato i libri di poesia Le strade di Gerico (Marco Serra Tarantola 2013), L’arte della sconfitta (Qudulibri 2017) e Tempo Stellare (Bertoni 2024).
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TEORIA DEL VALORE
Vedi come il sole si sbiadisce
sul bugnato della piazza, le statue sgretolate
guardano te e i turisti senza espressione alcuna.
Il riso, la possanza, la composta dignità,
tutto si è smangiato giorno su giorno.
La teoria è questa, questa la verità
di ciò che dai e di te
la parte migliore non può essere resa,
appare ora un gioco sanguinoso
sulle pietre cui assomiglierai.
L’anno ha castigato il mese, il mese
ha punito i giorni nel tempo a ritroso.
Trascinati, spremuta merce, sulle ore
che battono, scalcia contro il pungolo dei minuti
metti in fila le giustificazioni, le ossa spezzate.
Di una cosa che, ogni tanto, chiami anima
irriducibile, invendibile, proprio non ci interessa.
Vedi invece come il sole sbiadisce.
Presta a interesse speranze dimezzate
chi sa che la vita dura il tempo di perderla.
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SU UNA RIVA ROCCIOSA
Non aspettarti un cambiamento
nel traghetto del mattino grigio
come il grigio mare, non sperare
di trovare una vita diversa o più rare
immagini di quelle dei giornali.
La formalità è nei biglietti, negli orari
precisi, nell’impiegato ligio
che dice “buongiorno” e “a bordo”,
nella mattina a metà sul molo
solo un bambino si è guardato attorno.
Le spalle di roccia dell’isola curve
sul porto stanno dove sciamano i turisti
biciclette, autobus, panini, sculture,
del misero tempo dei padri si sono fatti artisti.
Segui per pochi euro il corso delle alture.
“Su una riva rocciosa”, una voce comincia,
“noi vivevamo, qui sull’isola abbiamo
anche una scuola, qui vengono ogni anno
a balbettare in una lingua morente
i nomi delle alghe, dei proprietari
di case nuove e vecchie e non rimane
niente della vecchia fabbrica, della tintoria.
L’avrete visto giù in basso il maglione
intrecciato nel rosso”, non più nostro
dovrebbe aggiungere e non può.
Aggiungilo tu mentre scorgi il recinto
divelto dal palo della luce, opera che ripete
da giugno a settembre pigramente nel gesto
un bimbo col bulldozer di plastica.
Su un mucchio di rocce sospinto
verso il mare o ti perdi o se resti fedele
reciti soltanto una finzione. Ma ecco
sei tu che lo dici e l’autista
tira secco il suo freno e ti conta il tempo di discesa,
quel quarto d’ora per rifare il mondo.
Inutile è confondere le parole,
fare più vera l’ansia e meno il nome
di tutte le case e le bestie che lui sa e tu no;
fu vero, fu vero sappilo, che non bastò
il raccolto di alghe, fu certo
che dietro i vetri della scuola la giornata era alta
e il sangue all’erta e i pantaloni
appena scesi sotto le ginocchia.
Fu chiaro che la pesca era scarsa
e troppo buia la sera sbadigliava
sulle grandi navi dall’isola d’Irlanda.
Gli uffici governativi schedano senza posa
aree depresse, lingue depresse, persone depresse
ti scongiuro, dicono in prosa suadente,
non buttare la vita davanti alla televisione.
Sei arrivato al punto in cui il faro si alza,
occhio della ragione, fuoco della clemenza
che il mondo ebbe per loro, frontiera
dell’impero che gli uomini posero
troppo in alto e nelle sere d’estate
come farfalle al fuoco sulla rocciosa riva
chiuse loro gli occhi. Non c’è chi viva
senza tramutarsi in una storia e tu
anche su questo non aspettarti cambiamenti,
innalzamenti di tariffa, mance mentre studia
le pause il conducente cinquantenne,
figlio moderno della luce elettrica passato
dagli asini ai van climatizzati,
la pausa per entrambi è già ordinata,
anche voi un breve aneddoto che un sospiro spegne.
Di lui e te ne ha ben più antichi l’isola
dai molti forti a spiare le rotte,
i cerchi di mura che l’erica bruna
insidia sempre meno se sali in alto
dicono solo se stessi, durarono
ben oltre le fascine e alle foto dei turisti
espongono un grigio più scuro
che si staglia sulle onde. Riportali se vuoi
a casa per un modico prezzo.
Sorride anche la commessa, siamo noi
mente il cartellone in colori vivaci
e di un’umanità così lontana tu
ormai sai solo che visse.
Al torcersi della brughiera sui sassi
il tempo è infine nei tuoi passi.
La sosta è finita per voi e tu non hai visto
per non sporgerti giù in un’ultima vertigine
come in un vecchio film degli anni Trenta
l’uomo delle isole Aran che raccoglie
le alghe, che munge le vacche e che canta.
La passione dell’estetica, i rapidi guizzi
del cuore, l’etica che si accontenta
delle smorfie agli scontrini nel gifstshop
è tutto troppo finto ma ritornerò.
L’autista fa manovra nello spiazzo.
Basta lo spazio di due generazioni,
Le notti meno fredde, più caldi i maglioni,
due birre nuove al pub e un supermarket.
Vi prometto tutto questo, la scuola, l’ospedale,
le finestre, l’intonaco più fresco.
Certo non fu proprio così
ma giureresti sotto le fascine
di aver sentito voci dire sì
e dall’alto maledire la riva rocciosa
che il grigio mare cinge per confine.
*
ENDIMIONE
La luna batte con i suoi quarti
lo spiazzo del parcheggio ora vuoto,
deposita un bacio sulle palpebre
semichiuse del giorno.
Domani verranno le api a impollinare
una pianta non voluta e cresciuta a pioggia.
Quiete del giusto sonno riannoda
tutti i pensieri stanchi che mi volano attorno.
Pile di carte in penombra, miti leggende
dei ricordi di bambino, di Caria i ruscelli,
le schiene dolci del Latmo ho davanti,
i pastori bisbigliano tra loro.
Mi hanno assicurato: sentirò lo zefiro,
la stagione è prossima e i sogni veritieri,
sarò per sempre giovane, splenderò d’altra luce
che questa arancione di uomini
che in ordine portano via un materasso
come piccoli fuochi nel bianco della tenda.
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© Fotografia di Beatrice Nava.