Giovanni Laera è una voce fuori dal coro prevedibile del contemporaneo e meraviglia la sua “lingua di spiriti e click bilabiali” che pungola e incide le giunture, obbligando il lettore alla medesima “rincorsa” di fronte alla tempesta che arriva. È l’unico modo di esistere davvero, uscire fuori, nascere nella poesia, apparire come baluginio a intermittenza negli spazi vuoti tra le parole, inseguirle “a colpi d’ascia”.
Torrentizia l’escalation fino alla metamorfosi, fino al mutamento definitivo dentro coordinate evanescenti di una Polignano spettrale e di una mente che parla come rabdomante in preda all’estasi. Una cinematografia nel senso letterale del termine, scrittura in movimento che non si lascia imbrigliare, s’imbizzarrisce, esonda, sorprende e diventa arte illusionistica: “amare amativo/ tremato trasamare di bufera”. E se lo spazio si disgrega e diventa lo scenario sconfinato della poesia, il tempo è l’unico tempo che può essere vero nella visione agostiniana, come nella dimensione del fiume lirico di Giovanni Laera: “respiro/ del mentre nel passato e nel futuro”. È il “mentre” della poesia, l’attimo, il momento propizio dell’ora che ferma il corso, lo immobilizza in un presente che congiunge ciò che è stato e ciò che sarà e rende comprensibile le parole del vescovo d’Ippona nelle sue Confessioni: «Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa».
Laera ci scaglia anni luce lontano dall’inutile mormorio contemporaneo, dalle tonnellate di carte intrise di letame, per usare un’espressione catulliana, e ci fa respirare dopo un’apnea interminabile. Dire il vero più taciuto esige la lingua dei padri, pretende parole che affondano nel terreno della storia, nel patrimonio genetico delle nostre radici e allora il dialetto si presta ad essere la lingua per quel sacro formulario, a recitare meglio ciò che soffoca in gola, l’alétheia heideggeriana, il disvelamento: «Dal silenzio senza parole a lungo custodito, e dall’accurata chiarificazione dell’ambito in esso diradato, viene il dire del pensatore. Dalla stessa fonte viene il nominare del poeta.» (Heidegger, Che cos’è la metafisica?, Adelphi 2001).
Sarah Talita Silvestri
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Luminosa maniera di esistere
nel bosco di me buio fammi male
ridicolo chiamarti puberale e
reviviscente, sciame di specchi, respiro
del mentre nel passato e nel futuro
luminosa maniera in ogni sguardo
tu grazia della ballerina bianca
a Polignano, tu che abbracciavi i camion
parcheggiati alle quattro d’estate, tu
partorita dalle acque cui tornavi
per spaventarmi il mare, maniera
maniera perenne di amare amativo
tremato trasamare di bufera
che ci grugnisce e cambia in baci
l’offesa delle piogge, e sfa in carezze
gli schiaffi sulla nuca, come ritrarti
e ritirarti, penso, nel mio rimare
come dirti rimanimi se già imbucano
una notte le sillabe per la paura
di parlarti, come passarti, penso, assorta
dentro la timidezza degli scalmi
nel maestralone, nella spensieratezza
dei motorini azzurri dell’infanzia
come formarti abbastanza nella mente
senza desiderare a noi la morte
senza ridurre il tuo profilo al niente
come luce, come maniera, come spatriata
lupa tra cane e sera, come una lingua
di spiriti e click bilabiali, come
la pallida rincorsa verso il nome
ferocemente andando a colpi d’ascia
e perdonati mai morire ma felici
felici nell’azzurro eterno dirsi
restiamo ancora qui – non è più tardi.
*
Ritrovo tra le rughe un’altra casa
che riconosco a stento dalle mani
alzate sul cervello. Ha stanze larghe
perché l’inverno scappi col bottino
e annunci primavera al mondo bello
come sarebbe se tu fossi un fiore,
penso, se il tuo rumore avesse sillabe
così profonde da ferire il tempo.
Ma un’altra strada mi riporta a casa.
La tempesta, Serena, sta arrivando.
*
Così hai ridotto i campi, con un cenno,
perché verso un sorriso spera il grano
il sereno spogliarsi di un interno.
Non tremo. Hai sonno. Vedi, è disperata
la faccia che l’estate assume quando
i figli della terra armano i fiori.
Avessi artigli, dici, ne farei
preghiere per l’inverno. Il piatto è già
servito. L’ospite arriva e piange.
La fame, Sara, è questo il tuo miracolo.
*
Notta appezzute, jind’a’ pavura affunne
de disce ‘a veretè cchiù citte o spanne
’a veste de nu fiète aqquanne ’a vestie
sckeme ind’o’ cannarile tù turcenne
a june a june i fremesì fegghiète
da nu scarnisce mu mu ndise, ce jére?
cià jé? si’ ttu, soso’? si’ ’a notta spartute?
No, nan é nudde, nessciune. A’ fenestre
natesce accome u pissce stranie ’a lune.
Notte appuntita, nella paura fonda
di dire il vero più taciuto o spandere
la veste del tuo fiato se la bestia
schiama dentro la gola ritorcendo
ad una ad una le frenesie figliate
da un mormorare appena inteso, chi era?
cos’è? sei tu, sorella? sei la notte spartita?
No, non è niente, nessuno. Alla finestra
nuota come un pesce estraneo la luna.
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Giovanni Laera (12 novembre 1980), originario di Noci, vive e lavora a Bari. Dottore di ricerca in Linguistica italiana, è autore di diversi libri e articoli su lessico, onomastica e folklore nei dialetti apulo-baresi. Ha pubblicato due volumi di poesia: Fiore che ssembe (Pietre Vive) nel 2019 e Maritmie (Marco Saya) nel 2023. Tra le antologie in cui è incluso si segnalano I cieli della preistoria. Antologia della nuovissima poesia pugliese (Marco Saya, 2022) e Poesia dialettale oggi. Voci dalla Puglia (Carabba, 2024). È caporedattore di «Avamposto – rivista di poesia».
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