Carme XXII: l’invettiva di Catullo contro gli sciami di versi inutili

Nota e traduzione a cura di Sarah Talita Silvestri

Nota e traduzione a cura di Sarah Talita Silvestri

Al centro della rivoluzione neoterica, Gaio Valerio Catullo (Verona 84 a.C. – Roma 54 a.C.), il poeta alessandrino e callimacheo, condivise le scelte di vita e letterarie dei cosiddetti poetae novi, improntate ad un atteggiamento anticonformista che contrapponeva all’austerità e al rigore della morale tradizionale valori nuovi come la grazia, l’eleganza, la raffinatezza. Ideali non solo etici ma anche estetici di un modello esistenziale fortemente individualistico, unica risposta possibile alla crisi della repubblica.
Si assiste pertanto con Catullo ad un radicale mutamento del rapporto tra poeta e poesia che vede l’autore come fulcro centrale e oggetto stesso del proprio atto creativo. Il carme XXII, del quale si propone una traduzione, appartiene alla prima sezione del liber catulliano, che contiene polimetri brevi, i cui temi sono legati al mondo privato del poeta, ai suoi amori, ai suoi amici e nemici, ai luoghi familiari.
Rientra tra i carmi di invettiva, contro i nemici dei nuovi poeti, quei cattivi versificatori, verbosi in misura sdegnosa e privi di qualsiasi grazia. È in nome dei principi neoterici che Catullo dileggia Suffeno, la sua mancanza di raffinatezza, la sua prolissità e soprattutto quel suo autocompiacimento rimpinguato dal suo voler “prendersi troppo sul serio, evidente dalla cura feticistica dedicata ai supporti materiali delle proprie opere”. Il poeta veronese qui tratta un argomento metaletterario molto caro, dissimulato dal destinatario conosciuto, l’amico Varo, seguendo lo schema favolistico con la morale nella chiusa che richiama un verso di Fedro a sentenziare sulla natura dell’uomo che addita la pagliuzza dell’altro e non vede la trave: sed non videmus manticae quod tergo est.

Bibliografia
– G. V. Catullo, Le poesie, Einaudi 2016.
– AA.VV., Lezioni romane, II, Loescher 2003.

Carme XXII

Conosci bene, Varo, quel Suffeno,
uomo raffinato, arguto e cortese,
che al tempo stesso compone fiumi di versi.
Penso ne abbia scritti diecimila o più,
e non li annota sopra un palinsesto,
come si fa, ma su papiri regali,
rotoli intonsi, bastoncini intatti,
strisce vermiglie, pergamene, tutto
allineato col piombo e levigato
con la pietra pomice.
Appena leggi, il brillante e garbato
Suffeno diventa un caprimulgo e financo
villano: a tal punto è mutato.
Com’è possibile? Colui che appariva
soltanto un buffone o anche più esperto,
appena sfiora la poesia, si mostra
più insulso di un rustico volgare.
Lui non è mai così tanto felice
come quando compone poesia:
si compiace di sé e tanto si stima.
È ovvio che tutti cadiamo in errore
e non c’è nessuno che in sé non possa
scorgere qualche aspetto di Suffeno.
A ciascuno è riservato sbagliare,
ma non ci si accorge della bisaccia
che portiamo sul dorso.

***
Carme XXII
(Trimetri giambici ipponattei o coliambi)

Suffenus iste, Vare, quem probe nostri,
homo est venustus et dicax et urbanus,
idemque longe plurimos facit versus.
Puto esse ego illi milia aut decem aut plura
perscripta, nec sic ut fit in palimpsesto
relata: cartae regiae, novi libri,
novi umbilici, lora rubra, membranae,
derecta plumbo et pumice omnia aequata.
Haec cum legas tu, bellus ille et urbanus
suffenus unus caprimulgus aut fossor
rursus videtur: tantum abhorret ac mutat.
Hoc quid putemus esse? Qui modo scurra
aut si quid hac re scitius videbatur,
idem infaceto est infacetior rure,
simul poemata attigit, neque idem umquam
aeque est beatus ac poema cum scribit:
tam gaudet in se tamque se ipse miratur.
Nimirum idem omnes fallimur, neque est quisquam
quem non in aliqua re videre Suffenum
possis. Suus cuique attributus est error;
sed non videmus manticae quod tergo est.