Riccardo Oliveri, Restare vivi (Passigli, 2023)

Nota di Mauro Ferrari

Alcune osservazioni su Restare vivi di Riccardo Olivieri (Passigli, 2023)

 

Per comprendere il senso di Restare vivi, la più recente raccolta di Riccardo Olivieri (Passigli 2023, prefazione di Claudio Damiani), uno dei libri più belli e importanti degli ultimi anni, è proficuo partire da un testo che compare a p. 115, dunque quasi alla fine del libro, e che si apre con la frase “Il canotto fu giallo”. Quel “fu” viene replicato in anafora molte volte, fino a finale “Poi fu altro, meno interessante” al terzultimo verso. Ora, all’interno di un testo in cui la memoria emerge con infiniti dettagli concretissimi, quel “fu” risalta come una spia inusuale, che si sovrappone al più prevedibile “era”, cioè il tempo imperfetto del ricordo. “Fu” instaura, nella sua stranezza, una frattura memoriale, resa tanto più evidente (ed evitando le secche dell’elegia esplicita) proprio dal terzultimo verso, “Poi fu altro”: passato e presente sono divisi da una cesura grammaticale, un muro.

Ci sembra quindi che questo testo, quasi defilato in una raccolta in cui abbondano poesie di perfetta tenuta tematico-stilistica, si segnali per esplicitare in modo definitivo un elemento da sempre presente e centrale nella poesia di Olivieri, e che potremmo definire faute de mieux come “senso del distacco”, o anche “alienazione”. Attenzione però: il termine qui non ha nulla a che fare con uno stato psicotico come la paranoia (il primo sinonimo che viene in mente): quello che ci pare evidente è soprattutto un profondo dissidio interiore fra diversi piani di esistenza ed esperienza, che è di tipo etico e che provoca spaesamento, facendo però da stimolo e motore di tutta l’imagery poetica, basata sull’indispensabile acribia dei dettagli, per definire un presente o ricordare un momento nel tempo, fosse anche una piccola epifania familiare che funga da contraltare per la temuta irruzione dell’esterno.

L’Io poetante coabita cioè simultaneamente due spazi e vive (in) due realtà contraddittorie, l’una inaccettabile, l’altra minacciata e precaria, per cui deve costruire uno spazio di incerta mediazione, da cui sorge la complessità di una poesia la cui superficie testuale, a una lettura superficiale, può apparire erroneamente pacificata e affabile, colloquiale nello stile e negli accenti, laddove il piano dei contenuti fa invece emergere strati profondi di tensione difficilmente risolvibili.

Restare vivi è dunque titolo centratissimo anche in rapporto all’intera produzione del poeta torinese, all’interno della quale la coesione e la coerenza dei testi è assicurata dalla tensione continua fra i diversi piani dell’esperienza. La poesia di Olivieri, che certo parte da istanze personali, non è mai poesia dell’Io in senso strettamente e limitatamente autobiografico e diaristico, perché ingloba quella che possiamo definire una visione operativa del mondo basata su una serie di antinomie comportamentali ed etiche: restare vivi implica muoversi all’interno di queste contraddizioni, situarsi in una zona in cui la nostra consapevolezza cozza contro il muro. “Dare senso al [. . .] durare” (poesia incipitaria, p. 13) già proclama, obliquamente perché in riferimento a una persona non esplicitata, la necessità di partenza e la motivazione di fondo di questa poesia.

In riferimento a questo contesto, “Il mondo è impazzito” (p. 66), verso che pare estratto dalla piccola conversazione quotidiana, intessuta di luoghi comuni, esprime invece nella maniera più diretta ed esplicita una contraddizione irrisolvibile tra realtà e ideali, realpolitik e utopia, guerra (si veda specialmente la sequenza Ucraina) e pace (almeno quella dei rapporti umani non conflittuali), pratica democratica e terrorismo: tutti elementi presenti nella raccolta, e che rimandano all’ovvia dicotomia fra reale e ideale.

Se scorriamo i testi troviamo infine come tutti questi spunti si sedimentino in due soli spazi semantici ben distinti: l’esterno (la vita sociale, il mondo del lavoro, il mercato, gli eventi di cronaca) e l’interno, la sfera dell’autenticità, che qui come non mai corrisponde alla vita degli affetti familiari innervata da tante piccole epifanie di una memoria personale e collettiva che rimanda a una comfort zone delimitata da un muro, che protegge ma al contempo è isolata ed isola, anche nel ricordo. Sarà proprio lo spazio familiare, vissuto sia in senso orizzontale (si vedano le splendide poesie a moglie e figlio, ad esempio Sei Shirly se scendi le scale, p. 20 e In questa vita, p. 30), sia in senso verticale, con il ricordo del padre (p. 25) a diventare il luogo del cuore, il nido a cui fare riferimento. La penultima sezione, Ritorni, bene inquadra il ritorno idealmente continuo e la ricerca di un riparo, come evidenziano gli eserghi e come emerge da questi versi nel segno dell’approdo alla pace interiore: “Satura di luce / mi si schiara / la mente” (Il vero mare, p. 108, che contiene anche il testo da cui siamo partiti).

Il tema del ritorno, medicamento spirituale più che nostos esclusivamente elegiaco, può anche assumere il carattere metaforico e corrispondere al mondo della poesia, popolato di figure di fratelli spesso citati in chiaro – almeno Fabio Franzin, Attila Miłosz, Alberto Nessi, a cui fare riferimento e a cui appunto tornare idealmente: “Sai Giorgio, oggi son tornato a te” (Per Giorgio Caproni, p. 122, corsivo nostro).

All’interno di questa ricca articolazione di una globale esperienza di vita (il che ci sembra definire il senso della vera poesia), un posto importante va attribuito alla sequenza Il mio manichino, invenzione di un alter ego, una sorta di misterioso e perturbante fantasma diurno (“La notte – mentre riposa – io esco”, p. 98) che ossessiona questo spazio interno. “Lo abito ma non so se sono lui” (p. 95) dice il testo iniziale, ribadendo l’idea di una frattura forse insanabile che ammette però la possibilità di una cauta convivenza.
Al manichino è assegnato il compito di maschera per affrontare la luce e le incombenze della vita, ma anche di silenzioso fratello con cui instaurare un ulteriore dialogo a protezione della propria umanità, minacciata dall’imbarbarimento. Olivieri sa bene che questa humanitas è in relazione con un passato edenico che in parte è, come per tutti, una costruzione mentale, ma che è anche una possibilità utopica (si vedano i testi più esplicitamente “politici”) tradita non soltanto dalla deriva capitalistica ma anche dal fanatismo ideologico: è in questo contesto che va letta, ad esempio, Lettera catalana (p. 15), indirizzata al “Caro terrorista” dell’attentato a Barcellona del 2017.

L’appello diretto: “Respira, ricorda di come tua madre ti teneva la mano”, è esattamente replicato nell’invito a Putin all’interno della sottosezione Ucraina (p. 44) e idealmente unisce due esempi non troppo diversi: l’uno dominato da cieca e fredda fede nell’utopia, l’altro (al contrario ma non troppo) da identica fede nella realpolitik più disumana.

L’esigenza, all’interno della strutturazione del libro, è di mostrare come certe derive cozzino con l’idea edenica di un “recinto familiare” in cui i genitori tengono per mano i figli, i figli chiedono loro di guardarli e seguirli (“guarda soltanto il mio tuffo”, p. 19; “mio figlio Alberto mi guarda”, p. 29; “Alberto s’è girato un attimo a guardarti”, p. 35) e tutto è governato da quel “prendersi cura” che troviamo anche come tema distintivo nella poesia del prefatore Claudio Damiani.

È questo, ci sembra, il senso ultimo del restare vivi, raccolta che non è affatto un’elegia che invita al ripiegamento in sé e all’escapismo, ma che anzi continuamente si apre a una complessa riflessione sul confronto con il mondo e sull’idea di una humanitas sempre più minacciata.

 

*        *        *

 

Mauro Ferrari (Novi Ligure 1959) ha pubblicato: Forme (Genesi, Torino 1989); Al fondo delle cose (Novi 1996); Nel crescere del tempo (con l’artista valdostano Marco Jaccond, I quaderni del circolo degli artisti, Faenza 2003); Il bene della vista (Novi 2006, che include la precedente plaquette); Il libro del male e del bene, antologia ragionata (puntoacapo 2016); Vedere al buio (ivi 2017); La spira. Poemetto (ivi 2019); Seracchi e morene (Passigli 2024, Prefazione di Giancarlo Pontiggia). Ha inoltre pubblicato la raccolta di saggi Civiltà della poesia (puntoacapo, Novi 2008, che raccoglie anche il precedente Poesia come gesto. Appunti di poetica) e i racconti di Creature del buio e del silenzio (ivi 2012). Sul suo lavoro è stato pubblicato il saggio L’etica dello sguardo, a cura di Gianfranco Lauretano, con una antologia di testi e interventi di G. Pontiggia, D. Talarico, G, Fantato, F. Filia, E. Grasso, M. Marangoni, M. Marchisio, A. Paganardi, F. Pusterla, M.P. Quintavalla. (Macabor 2024). Ha fondato nel 1995 e diretto fino al 2007 la rivista letteraria La clessidra ed è stato redattore delle riviste margo e L’altra Europa; ha curato con Alberto Cappi L’occhio e il cuore. Poeti degli anni 90 (Sometti, Mantova 2000) e molte altre antologie poetiche e critiche, tra cui Il fiore della poesia italiana (due volumi, con Vincenzo Guarracino, puntoacapo 2016). Dove va la poesia? (ivi 2018), Il posto dello sguardo (ivi 2021). Ha fondato l’Almanacco Punto della Poesia italiana (puntoacapo) pubblicato in cartaceo dal 2010 al 2016 e poi evolutosi nel sito www.almanaccopunto.com. Collabora con interventi critici e creativi a diversi siti e blog, tra cui pulp magazine. Come anglista si è interessato di Conrad, Tomlinson, Hughes, Bunting, Hulse, Paulin e altri poeti contemporanei. Ha curato e tradotto con Lamberto Garzia l’antologia La poesia cinese nel mondo del XXI secolo (puntoacapo, Prefazione di Giuseppe Conte, in uscita). A inizio 2025 sarà pubblicata per puntoacapo la sua traduzione del poemetto Briggflatts di Basil Bunting. Suoi testi, interventi e recensioni ai suoi lavori sono apparsi sulle maggiori riviste letterarie. È membro della Giuria dei Premi “Guido Gozzano”, “Lago Gerundo” e “Voci di un eterno dire”. È direttore editoriale di puntoacapo Editrice. È stato direttore culturale della Biennale di Poesia di Alessandria e attualmente è Presidente della sua evoluzione, la Biennale italiana di Poesia fra le arti (www.biennalebipa.com).

Riccardo Olivieri, nato a Sanremo nel 1969, dopo l’Università ha lavorato tre anni in Piemonte, poi ha vissuto in Lussemburgo e in America Latina. E’ rientrato a Torino nel 2000, dove vive e lavora come ricercatore di marketing. Nel 2001 ha vinto il Premio “Dario Bellezza” e ha pubblicato la raccolta di poesie Diario di Knokke, segnalata al Premio Montale 2002. Nel 2006 Passigli ha pubblicato Il risultato d’azienda (pref. Stefano Verdino) recensito sulla “Italian Poetry Review”, Columbia University. Nel 2012 esce per Passigli Difesa dei sensibili (Pref. D.Rondoni, nota M. Morasso). Nel 2013 vince il Premio Lerici Pea – Sezione Poesia Inedita. Nel 2014 l’Università di Bologna include Olivieri nell’“Atlante dei poeti italiani” (sito web -Dipartimento di Italianistica). “A quale ritmo, per quale regnante” è il libro uscito a luglio 2017 per Passigli (Presentazione di G. Conte) finalista al “Premio Firenze” 2017 e vincitore del “Premio Pavese 2018” per la poesia edita. Nel 2020, Puntoacapo Editrice ripubblica il “Diario di Knokke” con alcuni inediti, e la prefazione di Daniele Mencarelli. Nel 2023 Passigli pubblica “Restare vivi” (pref. di Claudio Damiani, con un commento di Vivian Lamarque e Giuseppe Conte in quarta di copertina). Al libro viene conferito il Premio “Il Meleto di Guido Gozzano” per la poesia edita 2023