Una nuova indagine critica su una specifica generazione di poeti si affaccia sul panorama letterario, a cura di Francesco Napoli per Interno Poesia: Poeti Italiani nati negli anni ’60 – Letteratura come condizione.
Nel dubbio posto da Carlo Bo, citato in esergo all’opera, sulla natura di rifugio o guida che svolge storicamente la letteratura, rimane sempre viva e complicata la triangolazione tra lettori travolti dai fatti collettivi e da quelli personali, scrittori ondivaghi e sempre meno classificabili e critici-saggisti che si confrontano con la prova di resistenza della propria ricerca, sancita – la prova di resistenza – da una cesura il più possibile rigida tra le informazioni oggettive e le proprie opinioni.
Come sottolineato con sensibile precisione dal curatore, la formazione socioculturale della Generazione Sessanta si è svolta nel fatidico ventennio che va dal Sessantotto agli anni Ottanta e che ha sancito un cambiamento radicale del tessuto civico e antropologico italiano, attraversando la metà del Novecento e cioè un cinquantennio focale per la letteratura e l’arte, tra tradizione, avanguardie, politica postbellica e approccio filosofico-psicoanalitico.
La proposta di ragionare criticamente su una specifica generazione che, in effetti, era rimasta in ombra almeno rispetto alla possibilità di poterne riconoscere ed esplorare i profili e le tendenze comuni, mette in luce sia il fondamentale potenziale gnoseologico di una tale indagine che i suoi profili di rischio, che poi sono quelli di ogni crestomazia di testi e autori, al di là del fatto che, per il lavoro in esame, il curatore specifichi a più riprese di non avere un intento antologico, compresi (nel rischio) i più mirabili, eloquenti e rivoluzionari florilegi storici di poeti come quello di Pier Vincenzo Mengaldo e quello di Edoardo Sanguineti.
Se la generazione precedente, quella dei “poeti del pubblico della poesia” di Berardinelli e Cordelli, tra cui sono annoverati autori come De Angelis, Conte e Cucchi, è molto forte, molto approfondita ed estremamente eterogenea, quella degli anni Sessanta può essere, forse e a determinate rigide condizioni di analisi, rappresentata come “un corpo” con molteplici sfaccettature, superando l’idea stessa di movimento, benché l’Italia fosse percorsa, in quegli anni, da scuole, linee territoriali e congreghe più o meno manifeste, come specifica con scrupoloso esame Napoli, tra cui il Gruppo 63, il Beat italiano e le correnti neodialettali, tra postmoderno e strutturalismo, solo per ricordarne alcuni.
Nella dualità contrastiva di novecentismo e antinovecentismo, lucidamente commentata nell’apparato critico del curatore, una determinante cesura, la fin de siècle individuata nel 1975 in concomitanza alla tragica morte di Pier Paolo Pasolini, interrompe ciò che in ambito poetico-letterario era accaduto fino ad allora, modificando radicalmente il concetto di koinè con la frantumazione del canone occidentale (così come inteso da Harold Bloom) e un ingresso sempre più pregnante degli influssi del mercato sulla cultura, poco dopo il boom economico italiano che ha seguito il secondo dopoguerra e l’inizio dell’austerity.
Il Novecento è stato un secolo “breve” che pure continua a vivere e maturare nelle coscienze degli attori culturali contemporanei. Prima di ogni possibile categorizzazione critica, rimane sempre il dubbio conflittuale tra cosa possa essere poesia e cosa ne sia distante, a cui Alberto Bertoni cerca di dare una risposta in termini di metodo, di analisi e di approccio storicistico nel suo saggio Poesia italiana dal Novecento a oggi (Marietti): “Certo, il miglior Novecento critico si sarebbe mosso in direzione opposta, rispetto ai dogmi del pensiero letterario formulato da Croce e alla dicotomia cui egli mai rinunciò di Poesia vs Non Poesia: la critica fenomenologica propugnata da Anceschi, la linguistica, la semiotica, la critica delle varianti sperimentata da Contini, le letture formali praticate dai Segre e dagli Isella, dalle Corti e dai Mengaldo, l’ermeneutica di Raimondi, il materialismo storico e strutturale di Guido Guglielmi, le inquietudini creative – fra psicoanalisi e scrittura in proprio – di Garboli, di Orlando e di Debenedetti, la filologia ricostruttiva e poi narrativa di Santagata e di Magris hanno sorvolato il pensiero interpretativo di Croce. E ne hanno colto il limite più grave, pur rispettando la posizione liberale e il sostrato filosofico che lo animavano: la Poesia riguardava la parte nobile e ideale del pensiero umano, lo Spirito; mentre la Non Poesia ne coinvolgeva le derive corporali e materiali. (…) Il Novecento avrebbe prima neutralizzato e poi cancellato queste dicotomie oggi davvero insostenibili”.
Se, come spiega Berardinelli nella prefazione ai saggi sulla poesia italiana del Novecento di Debenedetti, “l’avvenimento letterario moderno per eccellenza è il romanzo, e se il romanzo è insieme epica e lirica, ‘mondo epico e lirico’, resoconto di una ‘durata interiore’ e di una ‘vita attiva e documentaria’, che cosa vuole essere invece puramente lirica senza essere affatto epica, e che anzi separa nettamente i fenomeni dell’interiorità dalle circostanze esterne della vita”? E cosa accade alla poesia nei decenni successivi alla stesura di quei saggi debenedettiani, quando un focolaio imperituro di ermetismo continua a convivere con l’autofiction e la poesia narrativa?
La sfida di questo lavoro curato da Francesco Napoli, forse, è quella di comprendere i punti di continuità e i nodi di conflitto o di differenza con la prima metà del Novecento dei poeti nati attorno agli anni Sessanta e che, assieme a coloro che hanno animato la scena poetica nei decenni precedenti, si preparano ad essere i maestri e i mentori delle generazioni future, radunando nella propria scrittura le voci più rilevanti del secolo sia per affinità che per contrasto.
Rimane il dubbio, a cui risponderà la storia, di come questi autori si relazioneranno criticamente e/o ideologicamente con i loro successori (e viceversa), altro passaggio nevralgico della loro storicizzazione letteraria.
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G.B.: «L’impressione è che Generazione Sessanta si rinsalda con il pieno Novecento (Montale, Sereni, Luzi e altri) in particolare su linguaggio e forma, e considera i poeti de Il pubblico della poesia come fratelli maggiori»: così afferma nel saggio introduttivo all’opera. Ci enuncia le caratteristiche di discrimine formale e contenutistico più rilevanti tra gli autori raggruppati nello studio in esame (tanto da parlare di “Generazione”, nonostante le molte differenze messe in risalto nelle varie sezioni del libro) e quelli paradigmatici proposti dall’antologia di Berardinelli e Cordelli, per altro giunta alla sua terza edizione e con una modifica dei poeti selezionati nell’edizione intermedia, poi ripristinati nella loro totalità in quella del 2015?
F.N.: Rivedendo il passo che ha qui ricordato penso che avrei dovuto menzionare almeno Zanzotto prima di “altri”. L’affermazione riproposta è la conclusione di un più ampio discorso sulla fine del Novecento, avvenuta giusto alla metà degli anni Settanta, con le sue istituzioni e modalità letterarie. Si creò allora un “vuoto”, preconizzato da Pier Paolo Pasolini nel 1971, in “Nuovi Argomenti”, nella breve nota Che cos’è un vuoto letterario?. La questione da lei posta è articolata. Proverò a risponderle così, con qualche semplificazione qui necessaria. L’antologia di Berardinelli e Cordelli del 1975 nella sua prima edizione è sicuramente decisiva, contribuisce e non poco a segnare il passaggio oltre il Novecento. Quando nella prefazione, diventata antonomastica, Effetti di deriva, si legge che “tutti i generi hanno ripreso a fiorire simultaneamente in una situazione non più di conflitto e di reciproca aggressione ma di ilare convivenza”, si descrive una condizione molto peculiare che però non mi sembra arrivi alla Generazione Sessanta. In quel momento la generazione del pubblico della poesia – da De Angelis a Cucchi, da Conte a Mussapi a Magrelli e diversi altri (come Pontiggia e Santagostini etc etc) – sta reagendo con forza, per superarla, all’esperienza neoavanguardista ormai in esaurimento. Ma i Sessanta non sono poi così lontani, anzi, secondo una definizione di Gian Mario Villalta molto azzeccata, quei poeti sono dei “fratelli maggiori”. Le due generazioni sono in buona parte accomunate da problemi simili: relazione con i maestri, lingua, posizione dell’io poetico, rapporto poesia-prosa, solo che quelli del pubblico della poesia ci arrivano un po’ prima su quel vuoto, cominciando ad occuparlo. I due gruppi reagiscono in modo ancora novecentesco: con la rivista su carta. C’è “Niebo” di Milo De Angelis, da un lato, “Scarto minimo” di Padova con Dal Bianco, Benedetti e Melchiori, le romane “Prato Pagano” e “Braci” attorno a un nutritissimo gruppo di poeti e Beppe Salvia grande nume, e “ClanDestino” sull’asse Rondoni-Lauretano, ma non solo, dall’altro. Bene: Milo de Angelis e “Niebo” rappresentano di sicuro un punto di riferimento per il gruppo padovano, anche se la rivista era stata appena chiusa.
Ma la distanza c’è e si misura nella considerazione dell’atto poetico: è ancora viva in “Niebo” un’aura di sacralità ieratica della poesia e un certo simbolismo che ai Sessanta non interessa. Sulla lingua, poi, era impellente la necessità di ritrovarne una diversamente poetica. Bisognava proseguire lo smontaggio del binomio “ideologia” e “linguaggio” neoavanguardista. Insomma, avvicinare la lingua della poesia alla lingua reale, lasciando tra queste uno ‘scarto minimo’, per l’appunto. Il dire di un poeta doveva entrare in risonanza con la lingua, che è lingua degli altri prima ancora che propria. Ecco allora, ad esempio, che i Sessanta esplorano con certa continuità l’uso del dialetto come propria lingua poetica, e penso a Edoardo Zuccato, o come adozione alternata all’italiano, e penso a Pierluigi Cappello e lo stesso Villalta dal sorprendente esordio proprio in dialetto. E in questa scelta Zanzotto c’entra. Si tratta poi di una pratica tutta loro: degli altri solo De Angelis l’adotta, ma limitatamente in Distante un padre, 1989, con il dialetto monferrino di parte materna utilizzato in chiave espressiva.
Su forma poesia e forma prosa le due parti, poi, sono più distanti. La Generazione Sessanta ha particolarmente battuto su una continua frizione tra prosa e poesia, mostrando una particolare attenzione alla prima, come possibilità per la seconda di guadagnarsi altri spazi. E questo in stretta relazione all’attenzione sulla lingua. Detto in altro modo: una prosa che fosse un ampio bacino in grado di consentire “al discorso poetico di ampliare i confini del proprio raggio d’espressione” per dirla con Roberto Galaverni. Montale ha parlato di prosa come semenzaio della poesia: quelli del pubblico della poesia, non sembrano ricorrere tanto nei loro versi a questa potenzialità, i “fratelli minori” sì e vanno oltre. Con la prosa si aiutano ad allontanare definitivamente ogni residuo di oscurità e ineffabilità poetica, ogni resistenza di ermetismo strisciante, proseguendo però in questo il cammino già intrapreso dai “fratelli maggiori”.
Sull’Io si nota un ritorno alla funzione rappresentativa e conseguente riduzione del soggetto al contesto. L’opera dei poeti della Generazione Sessanta sembra fortemente impegnata ad allontanare ogni tentazione narcisistica dell’io, liberarlo da ogni egotismo autoreferenziale. Come fanno con la lingua, che è lingua degli altri prima ancora che propria, così fanno con l’io che è cassa di risonanza degli altri io. Mi sembra in questo di vedere una certa distanza tra i fratelli. E attraverso quell’io mi sembra anche stia ravvivandosi un’interrogazione metafisica, una sorta di effetto Luzi-Caproni per dirla in formula, non così disposto nei poeti del pubblico della poesia. E un effetto Caproni, senza alcuna filiazione sia ben inteso, mentre Luzi si sente di più (Rondoni). Suggerisco allora di leggere, anche in questa chiave, le ultime prove di Gian Mario Villalta, Dove sono gli anni, 2022, e, ancora di più, quella di Stefano Dal Bianco, l’appena edito Paradiso.
G.B.: “Coloro che non vedono, vedranno” è la scritta del bassorilievo de Il Disinganno presente nella Cappella Sansevero, che è da lei citata a conclusione del saggio. Qual è il potenziale di “disinganno”, disvelamento e verità cui mira questa ricerca da lei proposta?
F.N.: Qui non vident videant è il passo evangelico di Gesù che dona la vista al cieco inciso nel libro aperto ai piedi dell’Uomo rappresentato nel gruppo scultoreo “Il Disinganno” – chi non è mai stato alla Cappella Sansevero di Napoli, quella del Cristo velato per intendersi, ci vada subito – e rafforza il significato della sua allegoria che appare un chiaro riferimento alle iniziazioni massoniche, in cui l’iniziando entrava ritualmente bendato per poi aprire gli occhi alla nuova luce della Verità custodita dalla Loggia. Dunque: l’uomo di questo gruppo scultoreo si divincola da una rete (il peccato) che lo avvinghia e riprende il cammino verso la ragione grazie a una piccola fiamma (l’umano intelletto) recata sulla fronte da un putto alato. Il disinganno necessario, ma ben oltre questa mia opera, è nei confronti di quell’abnorme presenza oggi di versi e pseudo-versi, come credo mai ci sia stata nella nostra storia letteraria. In questo proliferare in “rete”, nei social – con troppe furberie, narcisismi e scorciatoie – e sulla carta – le autopubblicazioni sono in aumento esponenziale – si legge di tutto e di troppa presunta poesia; e ancora: cantautori come poeti laureati e l’aggettivo poetico abusato anche a spiovere. L’illimitatezza in questo caso non è un bene. Da questa foresta intricata bisogna uscirne, recuperando un modello di autorialità, di letteratura come condizione e non come professione. Avverto il bisogno di rintracciare nuovamente l’autorialità, un modo per filtrare, setacciare il lavoro poetico a monte, con un più netto ritorno a una parola poetica sempre più decisiva. Sul come però si apra il dibattito.
Ed eccomi al resto. Disvelamento e verità, non ho da proporne. Per il primo l’unica che pongo o, meglio, “mi” pongo, è quello di mantenere gli occhi aperti, di cercare di vedere ogni volta oltre, fin dove prima non riuscivo, tenendo al contempo lo sguardo sui poeti, poi sulle loro poesie e poi su dove e quando ricadono gli uni e gli altri. Mettere tutto questo sotto un’unica lente e provare a lavorarci su sine ira et studio per dirla con Tacito. In quanto a verità proprio non saprei. Non ne ho. Un’ultima nota riguardo la sua domanda: avevo pensato che “Il Disinganno” potesse essere la più giusta immagine di copertina di questo libro. Per fortuna la collana ne prevede una solo grafica.
G.B.: Come sono stati selezionati gli autori da introdurre nella Generazione Sessanta, e da cosa è stata sancita l’esclusione di alcuni altri emblematici, pur nella considerazione del carattere non esaustivo dello studio?
F.N.: Come giustamente ha scritto sono alti i profili di rischio nel cimentarsi su un lavoro di crestomazia di autori e testi. Ma io ho cercato di fare altro. Ho cercato di privilegiare i contesti, storici e letterari, ancor prima di scendere tra autori e testi. E non perché intimorito dal dover prendere decisioni anche sul merito, ma perché reputo si possano leggere al meglio autori e testi se si ha un quadro il più limpido possibile dei contesti. Ribadisco, quindi, che questo lavoro non vuole essere un’antologia, l’antologia si deve basare su criteri diversi, partendo dai poeti o dalle poesie secondo l’idea, la prospettiva ideologica che si ha. E, aprendo una parentesi, da un lato reputo più adeguato fondare sui primi, i poeti, gli eventuali tentativi di resoconto antologico e dall’altro reputo estremamente complesso oggi operare una selezione antologica, in un momento così dispersivo e disperso dove è arduo stabilire un canone. E sulla parola “canone” non vado oltre, ne possiamo parlare in un’altra intervista se vuole. Essere però inseriti in una collana editoriale così specifica come quella dove ha trovato spazio questo mio lavoro, aggiungo, e che ha già diversi titoli orientati più decisamente all’antologizzazione di un decennio, ha necessitato di un confronto tra Andrea Cati di Interno Poesia – al quale va ancora il mio ringraziamento per come si è reso partecipe di questo lavoro – e il mio progetto originario. Ne è venuto fuori, o almeno queste erano le intenzioni, un saggio storico-critico, e più il primo che il secondo, con la scelta di un corollario di testi, exempla, come fossero documenti allegati per questo tipo di approccio. Detto questo, se per esclusione si intende il gioco del chi c’è e chi non c’è tra i trenta autori di questo corollario, invito a leggere il lavoro nel suo insieme prima di fare la conta: la componente saggistica, tra introduzione generale e quelle per le diverse aree geoculturali nelle quali ho suddiviso la materia, presenta un numero più ampio di poeti. Poi, che si tratti di un corollario credo lo dimostri anche l’esiguità dei testi scelti e di numero uguale per tutti, cinque. Ho cercato così di stabilire un metodo di lavoro a campo largo, non porta bene ma “campo” va inteso alla Pierre Bourdieu, che tenesse conto di molteplici fattori di osservazione e che i testi ne fossero una componente centrale sì ma non la sola. Da un punto di vista cronologico, oltre l’anagrafe, è stato necessario principiare con alcuni poeti nati negli anni Cinquanta ma dal percorso tutto consentaneo ai Sessanta. E volevo allungare poi lo sguardo verso i Settanta, con diversi fratelli e sorelle nel decennio precedente. Ma essendo alle viste un lavoro antologico, non mio e sempre per Interno Poesia, su questi poeti, ho abbandonato l’idea. E dopo l’antologia Nuovi italiani contemporanei (1996) di Roberto Galaverni e alcuni saggi di Gian Mario Villalta compresi in Il respiro e lo sguardo (2005), credo fosse giunto il momento di metter mano, nel modo più organico e sistematico possibile, con un’idea di metodo analitico, su questa generazione di poeti dai percorsi ormai consolidati, dalla presenza nella nostra storia della poesia ben distinguibile e in una posizione molto scomoda tra Novecento e nuovo millennio. Ci ho provato, ai lettori l’ardua sentenza.
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