Daniela Pericone, L’inciampo, Forlì, L’Arcolaio, 2015
Lettura di Gianluca D’Andrea
…nel frutto per tempo voluto, senza esaltarti,
spingi il tuo puro mistero.
(R. M. Rilke, Sesta Elegia, vv. 3-4)
Ho imparato a conoscere la poesia di Daniela Pericone nel 2014. Lessi nell’estate di quell’anno la raccolta precedente dell’autrice calabrese – Il caso e la ragione – e, in un periodo di poco successivo, alcuni inediti che confluiscono nel presente libro. Con Daniela abbiamo anche parlato del titolo che poi ha assunto la forma definitiva, per fortuna lontana dai miei modesti suggerimenti, soltanto recentemente.
L’inciampo è il segnale di una costanza, di un’assiduità di scrittura che non posso non invidiare a Daniela. La sua “resistenza” si esplica nell’ostensione nervosa di un linguaggio, a volte diffidente, ma sempre generosamente propenso allo scavo, alle soluzioni verbali e ritmiche che si nutrono di una plasticità terrea, probabilmente derivanti dalla conflittualità della dimensione spaziale da cui provengono.
Dentro le ostilità del mondo relazionale di appartenenza le parole per la Pericone possono diventare «bocconi di luoghi comuni/ e ovvietà come aringhe/ lanciate alle foche allo zoo». I «vuoti a perdere» che le stesse parole rappresentano non creano memoria ma vivono nell’angoscia l’ostacolo comunicativo, forse per questo in molti testi il senso slitta in visioni immaginifiche che desiderano evidenziarne le straordinarie capacità evocative, il loro “luogo non comune” che produce opposizione: «Quanta ostinazione a inseguire/ la parola che schiuda tutto il senso/ probabile impossibile di palpebra pensante/ l’inutile presunzione di fidare/ in un nome che possa scongiurare/ la ridda di tamburi della veglia clamante». L’inciampo del titolo, allora, si chiarisce nella tensione a un percorso elevato di scrittura che può frangersi contro l’avvertita brutalità di un ambiente spesso gretto, sulle difensive.
Autrice riservata ma furente, Daniela Pericone non può non esprimere una volontà di fuoriuscita da schemi linguistici appiattiti sull’indolenza di un luogo che spesso diventa rifugio, alibi, caverna per uomini con «clava». La sua lingua si dibatte per dare fiato a una voce aerea, verso un panorama implementato dalla sua “cantabilità” – e i venti dello Stretto, in tal senso, agiscono da simbolo dialettico di una voluttà quasi ascetica. La “visione” drammatica delle relazioni, sempre ostacolata e come assediata dal «commercio/ degli uomini», rende evidente quello che Benjamin chiamò «il raggio educativo dell’individuo così compiuto e bello» in quella prospettiva edificante in cui l’autrice prova a chiudere «il cerchio del simbolico» (W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino, 1999, p. 135). Sì, perché è il desiderio – eroico? – di stabilire una connessione dialettica tra gli eventi a nutrire la “platealità” allegorizzante del soggetto.
Una giustizia deformata dalla visione si insinua nei testi più “barocchi” (quelli della seconda sezione, Lo scatto muto della tagliola), i quali sembrano rispondere in modo antinomico alla dialettica del circolo relazionale finora evidenziato. Tra catabasi e anabasi, il respiro di questa lingua a volte è fiato, altre sfiato:
2.
Una parola intorno vale l’altra
a poco suono conversa quiete
dolga del suo dolore il mondo
o esulti l’aria del suo calore
polpa non tocca, traccia non versa.
Solo fantasime di cartapesta
lontano vanno genti ed eventi
all’acque oscillando
filamenti letali di medusa.
La finzione “eroica” esplode nell’ultima parte, Di varchi e di bufere, nella più decisa tendenza a “verbalizzare” il testo (vedi la triplicazione aggettivale, di matrice cattafiana, che chiude il componimento di p. 69: «alle mie forme plurali/ furiose filanti inconcluse»).
La finzione si fa infezione, perturbazione del cerchio dialettico che vuole riaprirsi nell’utilizzo “esuberante” della lingua: «Di lato alla notte crepita una luce/ a segnare in quale punto dell’inverno/ si vada – ho sogni brevi perturbanti/ e ne ho infettato i versi d’una lingua/ che sa di marmo e brace perché/ possa presto liberarmi e visioni di tale portento/ che non mi stupirei se d’improvviso si levassero/ a sperperare misure sparigliare equazioni».
Il desiderio di uscire dal quadro, dalla «soglia invalicabile» è il messaggio che L’inciampo vuole consegnarci. Il cerchio, ossessivamente, si apre e si chiude, continua il suo giro enigmatico. Per un attimo ci si affaccia sul campo di un linguaggio fiducioso nel suo dire che rischia la tracotanza di senso, sempre in tempo, però, il pudore riesce a frenare l’esubero “eroico”, a ricondurci all’umiltà di non poter trovare risposte, «nessuna soluzione».
Tre testi dalla raccolta:
(Di varchi e di bufere, III)
13.
Non cede il dominio del pensiero
l’irruenza dei ricordi la vivezza di sensi irreali
ma niente uccide niente ci salva
né l’intento vale a mutare corso ai venti.
Di lato alla notte crepita una luce
a segnare in quale punto dell’inverno
si vada – ho sogni brevi perturbanti
e ne ho infettato i versi d’una lingua
che sa di marmo e brace perché
possa presto liberarmi e visioni di tale portento
che non mi stupirei se d’improvviso si levassero
a sperperare misure sparigliare equazioni
– esistenze da dissidenti come ingoiate dal gorgo
tuttavia sempre alla superficie del gorgo
grazie all’impagabile restare assorti
e distanti a seguire indicibili traiettorie.
Conforto a questa riva che su tutto resiste.
16.
Con il lavorio della talpa scavare cunicoli
entrare a muso basso nei nevai non sentire il gelo
degli insulti dei volti deformati alle menzogne irrigiditi
alla diffidenza da leve malvagie d’ambizione
con la pazienza del lemure abitare le grotte
imbottire di muschio le cortecce degli alberi
rannicchiarsi alle radici e bere alle fonti trascurate.
18.
Uscire da sé stessi lasciandosi
scivolare dalla pelle come un accappatoio
dal gancio delle scapole
appoggiare gli occhi sul tavolo
un tavolo uscito da sé stesso dalla vita
in cui non era che una porta
stanca di stare in piedi sempre sull’attenti
a guardia di un’isola senza pareti
– la porta è l’unica parete ma è soglia invalicabile
prigionia di uccelli e caronti –
s’immagina nell’ora più indifesa addormentarsi
si pensa orizzontale si corica ed è un tavolo
ora porta il peso di mille arance
rotonda beatitudine di sole e pianeti
che oscillano in visioni
parvenze di spazi senza luogo
di tempo senza passato
e nessuna soluzione.
Gianluca D’Andrea è nato a Messina nel ’76. È uno dei fondatori della rivista «Carteggi Letterari» (in rete da febbraio 2014), nonché responsabile della collana di poesia della casa editrice omonima. Come critico collabora, inoltre, con il quotidiano culturale on-line «Alfabeta2» e con la rivista «Doppiozero». Ha pubblicatto: Il Laboratorio (Lietocolle, 2004); Distanze (2007); Chiusure (Manni, 2008), Canzoniere (L’Arcolaio, 2008); Evosistemi (Edizioni L’Arca Felice, 2010), [Ecosistemi] (L’arcolaio, 2013). Vive a Treviglio (BG), dove insegna alle scuole medie.
Con Marcos y Marcos ha pubblicato nel 2016 Transito all’ombra.