Presso l’osservatorio di Khodovarikha, sul Mar di Barents sud-orientale, un meteorologo vive in perfetta solitudine. Si tratta di Slava Korotki, che il The Guardian nel 2015 ha definito «the most cut-off man on Earth», l’uomo più isolato della Terra. L’avamposto artico di Khodovarikha dista infatti circa un’ora di elicottero dalla città più vicina.
A lui si è ispirato Federico Italiano in una sezione della raccolta La grande nevicata, appena uscita per Donzelli Editore. Il poeta lo ritrae nella sua quotidianità, mentre misura la qualità della neve che riveste la tundra, apre lo schermo di Stevenson o cena con una fetta di pane nero e uova di salmone nella sua isba dal mobilio anni ‘30. È una delle tante narrazioni presenti nella silloge che si basano su fatti documentati.
L’opera si divide in cinque blocchi dalle tematiche eterogenee: si va dal rapporto tra uomo e animale al viaggio, dalla testimonianza autobiografica a quella storica, dalla magia dei luoghi all’incantesimo delle persone – che spesso, quando c’è di mezzo l’attrazione, si fondono. Ciò che accomuna tutto è la neve. Italiano ci guida in un mondo fatto di ghiaccio, nebbia, stagni gelati e inverni lunghissimi, senza però lasciarci morire di ipotermia. Non mancano infatti elementi di calore, siano essi capi di abbigliamento in «lana grezza» e ben imbottiti, bevande come «tè / al burro di yak» e vodka, cibi speziati, colori fiammanti o figure care.
Particolarmente interessante è, a mio avviso, la sezione La linea della neve, in cui l’autore passa in rassegna, con ironia e occhio cinematografico, una serie di ricordi infantili, a cominciare dal più antico che possiede: il suo primo approccio con le barbabietole nel refettorio azzurro delle suore. Qui, tra due walkie-talkie, una camera ardente, uno yeti e altre memorie, compare l’evento che dà il titolo al volume: la grande nevicata del 1985.
L’ultima opera di Federico Italiano si rivela, in definitiva, pur con le dovute differenze, in continuità con le precedenti. Malinconia, riflessioni filosofiche ed erotismo sottile continuano ad essere elementi importanti per il poeta, così come i bestiari, il lessico botanico, le epifanie, gli enjambement e la passione per il guardaroba.
Valentina Furlotti
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III
Vento da nord a nord-ovest, diciotto
metri al secondo, in aumento, pressione
in calo, c’è una tempesta in agguato.
Onestamente non so cosa ci
facciano coi miei dati,
se laggiù ancora capiscano il codice
Morse; vogliono installarmi un computer,
dicono che è un aiuto, ma io non
ho mai perso un rilevamento.
Temo sempre che qualcosa si inceppi
in cielo o sottoterra – un ingranaggio
d’aria, una nube troppo
densa, un’aurora così luminosa
da svegliare i minatori di notte –
che i venti invertano rotta e impazziscano
le temperature, proprio quando
non ci sto facendo caso,
come se il mondo
decidesse di andare in folle
nell’esatto momento
in cui smetto di osservarlo.
*
La grande nevicata del 1985
La giacca a vento rossa con le piume d’oca –
che a volte sbucavano dal poliestere
come tarme dai loro nascondigli –
i moon-boot antracite, i sogni d’allunaggio
nel calzarli, il lampadario della sala
che già alle tre di pomeriggio
faceva concorrenza
al lampione della piazza,
ogni cosa più lenta,
pacificata, marmorea, la neve
ancora candida sui tetti, tanta,
ammonticchiata ovunque, su transenne,
piloni, balaustre, lungo ogni muro, così tanta
che in cortile costruimmo una rampa
più alta di Kareem Abdul-Jabbar,
un monte bianco da cui scivolare
fino al cancello, prima su sacchetti
di plastica e inverosimili slitte,
poi in un bob nuovo fiammante:
rosso ferrari il guscio, nere le lunghe leve
dei freni. La gravità era strumento
del piacere. I gemiti della neve,
il crepitare del ghiaccio: gli effetti
collaterali dell’appagamento.
Con guance rosse, spilli
di freddo nelle mani, la sciarpetta
di lana grezza che incendiava il collo,
ci lanciavamo dal centro della nostra Via Lattea
ai confini del cortile, dentro il bianco
inesauribile di quel gennaio, un sibilo,
quattro secondi, un secolo –
fine dell’era glaciale, inizio del fango.
*
La pesca coi cormorani sul fiume Li
Non è un segreto che li paghino
per posare sul fiume Li
coi loro cormorani –
accovacciati sulla canna in spalla,
le ali nere spiegate ad asciugare
o ritti sulla zattera –, il cappello
a cono di bambù, la pipa,
il fiasco in scorza di zucca, il pizzetto
suasivo come un verso di Li Po.
Posano per turisti in Birkenstock,
per la transustanziazione del pesce
in pixel, ma al crepuscolo
quando le sagome dei colli carsici
sembrano ali di pipistrello,
cavalli che galoppano o proboscidi
e le lanterne sulle loro zattere
ardono più del cielo, non importa
se è per finta o se fa male davvero:
i cormorani dischiudono il becco
al loro pescatore
perché li liberi dal groppo
che gonfia i loro esofagi –
stretti da un laccio
nel piscatorio bondage
tra uomo e volatile – perché estragga
da loro il liscio
essere argenteo e l’intera bugia.
* * *
Federico Italiano nasce a Novara nel 1976. È ricercatore presso l’Accademia austriaca delle scienze di Vienna. Traduce, scrive saggi e insegna letterature comparate a Monaco di Baviera. Ha esordito con Nella costanza (Atelier, 2003), per poi pubblicare altre quattro raccolte: L’invasione dei granchi giganti (Marietti, 2010), L’impronta (Aragno, 2014), Un esilio perfetto. Poesie scelte 2000-2015 (Feltrinelli, 2015) e Habitat (Elliot, 2020). Le sue poesie sono state tradotte in numerose lingue e sono comprese in diverse antologie.
Valentina Furlotti nasce a Parma nel 1993. È laureata in Filosofia. Suoi inediti appaiono sul nono Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea (Raffaelli Editore, 2022) e su lit-blog e riviste come Poeti Oggi, Interno Poesia Blog, Atelier Poesia e Fara Poesia. Tre suoi testi sono stati tradotti in spagnolo per il Centro Cultural Tina Modotti. Sta ultimando la sua prima raccolta poetica. Instagram: @ms.furval
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