Il bello non è una qualità degli oggetti, ma una proprietà relazionale, che nasce laddove si crea accordo tra il soggetto e la rappresentazione che quel medesimo soggetto elabora dell’oggetto che gli sta dinnanzi. Dunque – a parere di Kant – non vi sarebbe alcuna bellezza intrinseca nelle cose, ma il dichiarare la bellezza di qualcosa è il prodotto della nostra soggettività, che proietta su di un quadro che piace, su di un testo poetico che ammalia, su di un palazzo che stupisce per la sua architettura, il proprio desiderio di armonia.
In questo modo, la riflessione estetica si distingue dal mero senso comune, che ritiene che il bello sia una proprietà oggettiva delle cose, e si rivolge al soggetto e alle sue modalità di giudizio.
L’arte, e la poesia più d’ogni altra forma espressiva, costituiscono difatti un gioco, che si basa sul di un piacere disinteressato, ovvero su di un sentimento che l’io prova al di là dei propri condizionamenti. Il ruolo centrale della libertà all’interno del fare artistico è forse una delle maggiori eredità del Kant della Critica del giudizio (1790), opera che, oggi più che mai, merita di essere riletta e compresa. È all’interno del saggio che il filosofo smentisce sia quelle prospettive -oggi tanto alla moda- che riducono l’arte (e, all’interno di essa, sia il piacere in quanto elemento consustanziale al bello, che il brutto ed il volgare, come elementi consustanziali alla trasgressione) a significati meramente soggettivi, sia quelle prospettive che, viceversa, galleggiano in un tradizionalismo monolitico, che imbriglia la creatività entro regole ferree. Di contro assistiamo oggi al farsi legge di parametri che, un tempo, sarebbero stati del tutto anti-artistici, come la provocazione e la distruzione, che divengono adesso nuove categorie estetiche, assai in voga nella maggior parte dei linguaggi espressivi, pittorici, scultorei, performativi o poetici che siano. Questo significa che, ai nostri giorni, ciò che sta crollando è il contenuto, ovvero la capacità del soggetto di conoscersi davvero e di conoscere davvero, non riuscendo così ad elaborare una forma d’arte innovativa e capace di farsi espressione autentica del presente. Viceversa, dominano un solipsismo e uno sperimentalismo estremi, che sono spesso sintomo dell’indifferenza dell’artista nei confronti degli altri -costui difatti non si preoccupa più d’esser compreso-, o di un atteggiamento di noia e insofferenza in cui il soggetto, critico verso ogni autorità, non riesce a costruire qualcosa di alternativo e di valido.
Riprendendo La critica del giudizio di Kant, possiamo senz’altro dire che l’arte e la poesia contemporanea si sono evolute in una direzione che è la via di mezzo tra il bello (sentimento che nasce dall’armonia, dall’ordine, dall’equilibro) e il sublime (categoria che scaturisce invece dal senso di piccolezza del soggetto, dal su sentirsi una nullità dinnanzi ad un infinito, matematico o naturale che sia, che lo schiaccia). Questa via di mezzo deriva dalla perdita del senso dell’altro e dal correlato smarrimento di quell’atteggiamento originario e disinteressato che, per Kant, era alla base del giudizio estetico. Perdere il senso dell’altro comporta, così, l’incapacità cronica di utilizzare qualsiasi linguaggio espressivo come un ponte, come una soglia, come qualcosa che unisca gli individui in un comune sentire vivo e che li elevi reciprocamente; mentre lo smarrire l’originario atteggiamento disinteressato – ovvero privo di secondi fini e di ogni utilitarismo – genera un’arte (poetica, pittorica, cinematografica, etc…) conformistica, tutta tesa ad assecondare lo spirito del tempo, invece che atta a scavare dentro di esso, sovvertendolo per comprenderlo e per proporre nuove visioni.
Lungi dal dovere avere un ruolo predeterminato, l’arte si ritrova tuttavia oggi priva di coordinate e di spessore, priva di elementi che siano capaci di orientare nel mare magnum della globalizzazione postmoderna e non fa che cantare lo spaesamento ed il malessere di chi, in quel mare, è disperso da tempo. Questo sentimento del dolore, seppur vero, in quanto specchio dell’oggi, dovrebbe però finalmente trapassare in desiderio di qualcos’altro: qui sta la forza dei linguaggi espressivi che, dopo aver compreso il tempo in cui si collocano e la cultura che li partorisce, osano proiettarsi in avanti, come un figlio che ha fatto pace con le proprie radici, o come un oracolo che prevede l’avvenire e ciò che sarà. Del resto non vi è autentica arte senza un po’ di spirito profetico, ma quest’ultimo, per manifestarsi, necessita di coraggio e della forza di idee nuove, capaci di regge il peso dell’incomprensione dei contemporanei.
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Lucrezia Lombardo nasce ad Arezzo nel 1987. Dopo la maturità classica si laurea in Scienze filosofiche a Firenze con il massimo dei voti. Lavora quindi come curatrice, autrice di testi d’arte contemporanea e come giornalista, specializzandosi con vari corsi di perfezionamento e con un master in gestione dei beni culturali. Attualmente l’autrice scrive per alcune riviste letterarie internazionali, insegna Storia e Filosofia presso un liceo e collabora con vari atenei privati come docente di Storia della filosofia contemporanea, oltre ad aver conseguito una specializzazione triennale come Counselor psicologico a indirizzo psicobiologico. Dal 2020 Lombardo è co-direttrice e curatrice della galleria d’arte contemporanea “Ambigua” di Arezzo e si occupa di poesia da diversi anni, sia come autrice, che come redattrice (collabora infatti per la rivista letteraria italo-francese “La Bibliothèque Italienne” ed è responsabile del blog culturale del quotidiano ArezzoNotizie). Le sue raccolte poetiche: La Visita (Giulio Perrone 2017), La Nevicata (Castelvecchi 2017), Solitudine di esistenze (Giulio Perrone 2018), Paradosso della ricompensa (Eretica 2018), Apologia della sorte (Transeuropa 2019), In un metro quadro (Nulla Die 2020), Amor Mundi (Eretica 2021), con prefazione del poeta e regista Mauro Macario.
© L’immagine ritrae il filosofo Immanuel Kant, in un dipinto attribuito a Jean-Marc Nattier (1790 circa).