Marco Pelliccioli
L’inganno della superficie
Prefazione di Maurizio Cucchi
Stampa2009, 2019
pp. 128, euro 15,00
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Il giovane autore di questo lavoro, L’inganno della superficie, lungi dal volerci ingannare, vuole aiutarci a guardare oltre, aprendo varchi, esplorando linguaggio e contemporaneità, vita vegetale e vita umana, crepe, crolli, superfici – il mondo insomma, fino al dolore. Nel libro si intersecano prosa e poesia, animate entrambe da uno spirito di partecipazione civile e di attenzione antropologica: “Qui è lui a testimoniare la storia di un dolore:/ frammenti di una madre, brandelli di Angiolina,/ l’attimo presente di una superficie/ che ingoia nell’inganno lacrime comuni”. Incontriamo anche la natura, in brevi e calibrate suggestioni: “Frusciano, oltre la siepe, il muro, stormi di abeti, pini, flauti o forse giochi, antichi, regali. Attorno al campanile tracciano volumi incerti, suoni di una lingua prima. Per strade, balconi, ricordano che siamo, i passeri nel cielo, fragile uno stelo.” Altri esempi dimostrano invece intenti talvolta sperimentali e provocatori:
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LA DONNA SENZA RUGHE
La donna senza rughe si aggira tra le casse con pelle di leopardo avvinghiata attorno al collo, unghie fluorescenti, lucidi stivali. Per lei il “make up”, di bassa fattura, è prerogativa per scendere le scale, attenuare il tonfo degli innaffiatoi giù per i balconi.
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TRENORD
L’uomo-nero ruba, dicono due buoi, con la gazzella bionda, avvolta nelle cuffie, che punta nel mirino un video da “postare”. Come mucche al pascolo, i pendolari a bordo scuotono la testa.
Lo sguardo di Marco Pelliccioli, come può notarsi, non cessa mai d’essere indagatore, stigmatizzando contaminazioni linguistiche deturpanti e trasponendo spesso la realtà su piani slittanti di senso per darle una nuova possibilità d’interpretazione:
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Sciami di colmi innaffiatoi, tegole con ali
vasi in pietra e mani immerse nella terra
migrano in telescopi, “tweet”
posizioni certe segnate in Google Maps
riverberano l’eco
(lontano il temporale)
infrangono con l’acqua le mura di cinta.
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Come è bianca, ora, la luna
sopra i palazzi decrepiti a Lambrate,
se l’antenna mezza storta non capta più segnali
è per sua colpa
d’aver cambiato la gravità di senso
d’aver portato i lacci, la tomaia
in quel cratere immenso.
Il poeta arriva ad utilizzare anche frammenti di storia e di memoria (per esempio epigrafi e monumenti, la toponomastica della vecchia Milano, le tracce del parlato dialettale) per decifrare la vita della città e le povere vite periferiche incapaci di autocoscienza:
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Nel fiume ora in secca
la Torre Viscontea
(la bifora, lo stemma
il tronco sul letto trucidato)
l’acqua resiste in pozze raggrumate.
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Si frange in luci rotte, braccia
ringhiere, altre portiere
l’acqua del corso al largo di Porta Ticinese
( non pattina via piatta
come le superfici di vetro in verticale)
si increspa negli stracci, mollette
altri crepacci, dove sprofondo a picco
in voci, bitte, ormeggi
che ormai non sono più
( il porto in via Pantano, dalla Vettabbia al Lambro
al mare per il Po,
il lago dove un tempo, di lato la Ca’ Granda,
il marmo da Candoglia,
i panni strofinati, la scorba, il cavagnin
a terra sul brellin)
minuta goccia d’acqua
infranta sulla “cover” di uno “smartphone in wi-fi”
che ignaro la disperde per scattare invano
un “selfie” con lo “stick”
«Non disperate», dice un lavander,
«domani slacciano gli ormeggi…»
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Sommerso nel cappotto, gli occhi vitrei,
fissa la carrucola salire per la gru
disperso in un angolo, un cantiere a Garibaldi,
e ascolta, sparsi da un piano all’altro,
le squadre di operai lanciarsi una bestemmia
– la carrucola che sale, il carico in arrivo –
poi muto, a capo chino,
riprende a camminare
le crepe nell’asfalto, il muro sgretolato
sprofonda ricurvo nelle fondamenta.
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Quanto dolore spalancano le strade
nella lama rossa del mattino
lei avvolta da un formicolio di foglie
lui che avanza mesto a capo chino
lei ristretta al fianco nella borsa,
vita, che non lasci via di scampo
se non stringere la blusa
rimboccare le maniche sul braccio
lasciare aperti i polsi
per un rivolo di cielo
che scorra nelle vene.
Un libro dunque molto variegato – suddiviso in tre parti e tredici sezioni – ricco di sorprese, ex-ergo e note d’autore, incardinato sull’idea forte di una poesia immersa nel mondo con spirito critico che riporta su se stessa le cicatrici di quanto incontra e denuncia.
Antonio Fiori
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Marco Pelliccioli è nato a Seriate (Bergamo) nel 1982 e cresciuto a Brusaporto, piccolo paese della provincia bergamasca. Laureato in Lettere moderne e cinema alla Sapienza di Roma, lavora nell’editoria. Ha pubblicato le raccolte di versi: L’orfano (LietoColle-Pordenonelegge, 2016, Premio Colline di Torino); C’è Nunzia in cortile (LietoColle, 2014, Premio Albero Andronico); Vapore metropolitano (Albatros, 2009, Premio Mario Pannunzio). Del 2015 è il romanzo A due passi dal treno (Edizioni Eclissi), segnalato dal Premio Italo Calvino. Un dandy a teatro. Oscar Wilde e Woody Allen (Edizioni MEF) è un saggio del 2008. Suoi testi sono apparsi su riviste e antologie. Cura la rassegna La poesia e la fontana al Teatro Fontana di Milano, dedicata a voci emergenti e maestri della poesia contemporanea.