Da: Umberto Piersanti, I luoghi persi e altre poesie inedite, Crocetti Editore – IF Idee editoriali Feltrinelli, 2022.
In libreria il 31 marzo.
Di marzo
a mia nonna Fenisa
tirava il vento gelido che spesso
attraversasti nonna a primavera
lunga fu l’orazione con le soste
come quand’eri in vita che scandiva
la tua giornata estrema ai Cappuccini
restano ancora querce alle Cesane
e crescono le rape di questi giorni
solo la casa nostra in fondo al fosso
ho visto ancora più rotta e desolata
sopra la macchia cresce come sempre
lì nell’infanzia spesso mi guidavi
mi resta una tua foto dove sei
con Jacopo che a un anno era stupito
per i volti diversi e così i luoghi
cresce in un altro spazio dove il mare
si gonfia velenoso di schiuma e olio
solo quel giorno è stato sopra i campi
che la mia gente abita da sempre
penso che in quella foto insieme avete
i cent’anni mancati per così poco
ora tu sei nel breve cimitero
dove cresce l’anemone tra l’erba
guardo i greppi deserti ché nessuno
resta che li conosce in ogni ceppo
quanti sono caduti che m’hanno visto
mentre vago nei campi alla Cesana
molti ora sono in questo spiazzo
e ti è accanto Celeste che anche in vita
con te ha dimorato sotto il fosso
ora dov’è la fonte col folletto
e la piana remota dove a Madìo
saliva lo sprovinglo nel biroccio?
dove la terra brulla che ci ha dentro
i marenghi a mucchi sotto la genga?
deserte sono adesso le cesane
cessano le presenze o vanno altrove
sono arrivato dopo sopra il mare
con le ginestre spoglie dell’inverno
che tenace perdura e che ci ha tolto
mai come quest’anno dolci amici
e una ragazza nuova e forestiera
è salita con me fin oltre i rovi
contro la stoffa premo la mia faccia
mentre le mani stringono la schiena
poi ti condussi al prato della chiesa
che sta sopra il villaggio abbandonato
c’inoltrammo di fianco in un sentiero
hai colto il fiore azzurro e piccolino
e m’hai chiesto il suo nome, dove
tu vivi – dici – non l’hai mai visto
non ti scordar di me io t’ho risposto
ferma nella tua mente l’ora e il luogo
un’altra volta il cielo era stellato
era lontana e fredda quella dama
bionda che sorrideva nella cena
ha le labbra serrate, dal finestrino
guarda i campi pendere gelati
vorrei goderla stretta contro il muro
non m’amano le donne in questi giorni
né m’accolgono più dentro di loro
solo sfiorano il volto e la mia mano
o giovinetta amica che m’accompagni
per lo Spineto colmo di favagelli
quieta ancora tu ascolta questa storia
d’un luogo che fu il mio e che diviene
un po’ più estraneo sempre e doloroso
Marzo 1988
L’anima
io non avevo mai capito
da dove l’anima viene tra gli spini
ma l’anima è piccola, fatta d’aria,
passa tra gli spini e non si graffia
Nel tempo che precede
madre ch’eri fra tutte la più gentile
persa con le tue amiche in fondo al fosso
lunga la treccia sul tuo corpo snello
scende fino alla vita, nell’acqua chiara
hai camminato scalza, scosti le brecce
dentro la tana il gambero s’appiatta
d’intorno sono i colli che tu speri
di sorpassare un giorno, non sai la meta
guardi il greppo che pende e ti sovrasta
oggi Madìo ha preso con la vanga
il lepre nel trifoglio alla piantata
passano i merli dentro l’aria chiara
getta fuori il sambuco acini fitti
ma Celeste è lontano, presso i fili
dove muore chi è andato a far la guerra
scenderà questa notte giù dal cielo
– la tua fiaba narravi all’Elda attenta –
lo aspetto col cuscino presso il noce
c’è come un carro grande che vola sopra
per lui metto le viole nel bicchiere
ho tolto dalla cenere i lenzuoli
dopo scavò la terra proprio alla porta
dentro ci ha messo il noce, la rama chiara
consiglio della Fenisa quand’ha saputo
che è quella la pianta dove aspetta
scende nella divisa grigioverde
lento giù per la costa sullo stradino
e splende la sua faccia per la luce
come mai s’era vista dentro l’aria
sarà quella ragazza che t’aspetta
venire nella notte giù dal cielo
la prima che t’abbraccia sulla porta
prima che nascessi furono insieme
stavano tutti là presso l’aiola
a pescare castagne nel caldaro
ora mancano tutti, manca una casa
solo prima di nascere l’ho avuta
Intervista, a cura di Giovanna Rosadini
Credo di essere stata la tua prima lettrice, in Einaudi, quando, nei primissimi anni Novanta, cominciai a collaborare con la casa editrice. La raccolta poetica, che venne poi pubblicata nel 1994 per i tipi della mitica “Bianca”, la Collezione di Poesia, si intitolava “I luoghi persi”, e m’incantò. Ci ritrovai la memoria di quella civiltà contadina dell’Italia centrale che mi appartiene per le mie ascendenze toscane, dallo sfondo mitico all’amore per una natura sentita e vissuta nella sua complessità, nella sua componente di armonia (dove, più che nel paesaggio collinare plasmato nei secoli dalla mano dell’uomo di quelle regioni, fra borghi storici ricchi d’arte e dolci geometrie dei campi?), ma anche nei suoi aspetti più aspri e crudeli, e l’impiego di una lingua che, nella sua sapiente naturalezza, è quella della più pura tradizione letteraria italiana… Un libro che, fin da subito, si rivelò importante e necessario per il suo valore testimoniale, tanto vivo e pulsante nel sentimento di appartenenza a un mondo scomparso quanto scevro da sentimentalismi. Protagonista è la tua terra, le Marche, dove natura e cultura formano un connubio indissolubile, e soprattutto il microcosmo delle Cesane, luogo dei ricordi d’infanzia e adolescenza. Quello che fu il tuo primo libro einaudiano ebbe, oltre ai riscontri critici, anche un notevole successo di vendite, arrivando alla quinta edizione. Vuoi parlarci di questa nuova edizione per l’editore di poesia per antonomasia, Crocetti, storico e prestigioso logo cui la poesia italiana deve moltissimo?
Mi hai fatto una domanda complessa, che contiene in sé i caratteri di una breve, ma acuta e partecipata recensione. Del resto tu sei stata forse la prima fuori dalla cerchia dei miei amici urbinati a leggere questo testo. È vero, le Marche, come la Toscana, hanno una natura che s’intreccia con l’opera dell’uomo, nei secoli precedenti intelligentemente distribuita. Ne I luoghi persi si fronteggiano Urbino, la perfetta polis rinascimentale che tanto deve agli artisti toscani, e le Cesane, il cosmo, un mondo non caotico ma certo ancora selvatico e campestre. Il bambino, nato in città, trova nella casa della nonna in fondo al fosso un suo luogo d’elezione, uno spazio in cui liberamente e pienamente immergersi. E questa sensazione diventa ancora più forte nella memoria che spinge alla scrittura. Non si tratta certo di una natura pacificata, molti sono gli aspetti oscuri di cui parli nella domanda. La biscia ingoia l’uccelletto, la poiana s’alza in volo con la serpe trafitta dagli artigli. Le anime bussano nelle crepe dei vecchi muri, il diavolo – folletto, lo sprovinglo, sotto forma di cane nero, sale sui birocci e ne blocca il cammino. È una natura che racconto senza alcuna prospettiva ideologica, magari ecologica, così fortemente e giustamente presente nel pensiero contemporaneo. L’aspirazione all’armonia, nonostante le inquietudini e le durezze del vivere, è quella che mi hanno ispirato le perfette forme rinascimentali e le pacate colline presenti nei dipinti raffaelleschi. Aveva scritto Franco Loi su Il Sole 24ore che la scelta di una lingua classica, senza ricadute classicheggianti, la poteva fare solo un autore erede di una tradizione che andava dal Petrarca a Leopardi e oltre. Senza con questo neppure pensare lontanamente di volermi mettere al loro livello. Non sono folle. Nella copia che ho de I luoghi persi c’è scritto settima ristampa. Dunque ci sono state sicuramente otto edizioni, e non so se l’ottava è l’ultima. I luoghi persi hanno avuto anche un grande successo di vendite e una notevole attenzione critica: tutto questo devo anche a te, mia prima lettrice. L’uscita de I luoghi persi nella Collana bianca mi ha dato gioia. Oggi sono molto contento che vengano proposti da un editore, Crocetti, che tanto ha dato alla poesia italiana e mondiale. Inoltre la rivista Poesia, creata da Nicola Crocetti, è stato un punto di riferimento per tutti ed ha grandemente allargato il pubblico della poesia. In questa nuova edizione è presente anche una folta sezione di inediti. L’ampia e articolata introduzione di Roberto Galaverni dialoga con la nota critica di Carlo Bo già presente nell’edizione einaudiana. Un antico, grande maestro e uno tra i più importanti critici d’oggi a confronto.
Sei sempre rimasto straordinariamente fedele alla tua poetica, che hai declinato nella trilogia einaudiana (oltre a “I luoghi persi”, “Nel tempo che precede ” e L’albero delle nebbie” e nelle raccolte uscite per Archinto e Marcos y Marcos, fino al libro degli ottant’anni, “Campi d’ostinato amore” uscito nel 2020 per La nave di Teseo, dove raggiungi una scioltezza ed essenzialità formale e comunicativa che l’hanno reso forse il tuo libro più amato, come testimoniano i numerosi premi che ha vinto, dal Camaiore al Saba. Qui la dimensione geografica delle Cesane si trasfigura assurgendo a connotati di universalità, e la Storia irrompe nei ricordi infantili di guerra. Ma c’è anche una dimensione più familiare e personale, sia legata alla memoria degli scomparsi (più proiettati in un alone mitico che in una raboniana “comunione dei vivi coi morti”), sia incarnata nella figura di tuo figlio Jacopo, protagonista della quotidianità dei nostri giorni. In questa oscillazione fra memoria e presente si modula quello che potremmo definire un compendio biografico, sei d’accordo?
Sì, sono d’accordo. So che alcuni critici preferiscono altre raccolte, in particolare I luoghi persi. Credo che ci sia, in Campi d’ostinato amore, una maggiore maturità del pensiero e dello sguardo. Jacopo è presente già ne I luoghi persi, quando ne aspettavo la nascita. In Nel tempo che precede già occupa una sezione, ed è protagonista di una delle mie poesie più riuscite e più note, La giostra.
Storia e cronaca si erano già affacciate ne Il tempo differente del 1974, il libro che a mio parere contiene i miei migliori risultati prima della trilogia einaudiana. In Campi d’ostinato amore credo però che ci sia una più completa fusione tra la memoria, la storia, in particolare quella seconda guerra mondiale che ha occupato i primissimi anni della mia vita, e Jacopo. Qui Jacopo è sospeso tra mito e reale, ora sto continuamente con lui, e non lo vivo solo in ore particolari e diverse. Anche il presente entra in questa raccolta, perfino il covid, che credo di avere raccontato evitando toni facili e giornalistici: quei toni che colpiscono molto quei troppi giornalisti che hanno letto le ultime poesie nei banchi del liceo o i professori poco acculturati sempre pronti a correre dietro i mass-media.
Penso anche che, dopo tanti anni, questa realtà appartata che racconto e la saga delle Cesane vengano adesso più comprese dai critici e dai lettori di poesia. Per concludere, sono completamente d’accordo con la tua affermazione: i morti che popolano quei remoti campi sono proiettati in una dimensione mitica, che è diversa dalla comunità di vivi e morti raboniana.
Abbiamo parlato dei temi della tua poesia, che esprimi in una lingua chiara e rotonda, incline al canto, una lingua, come detto, che attinge alla più nobile tradizione letteraria italiana, e a questo proposito ricordo che sei il presidente del Centro mondiale della poesia e della cultura Giacomo Leopardi di Recanati. Ci puoi parlare delle tue ascendenze letterarie? Guardando poi alle diverse correnti poetiche del Novecento, e ai loro esponenti, quale e chi sono stati più determinanti per la tua formazione? Chi rileggi, oggi, più volentieri?
Fin dalle medie Leopardi, Carducci e Pascoli erano per me la poesia. Sui loro versi non tanto mi sono formato quanto ho imparato ad emozionarmi, a sentire il senso e il suono del verso. Insisto sul suono perché da sempre la dimensione musicale del verso mi colpisce e mi commuove. Ciò non significa affatto che sia un autore particolarmente attratto dalle strutture metriche. Andare a capo e ritmare la voce attraverso il susseguirsi dei versi non è un qualcosa di accessorio: anche nel verso libero più sfrenato e contorto c’è bisogno di un ritmo, di una musica. Caproni, che ho avuto il piacere e l’onore di conoscere, diceva che la poesia non è musicale, ma è musica. Dunque questi poeti tra otto e novecento (penso anche al D’Annunzio dell’Alcyone) sono quelli fondamentali non solo nella mia formazione, ma anche nella mia vocazione. Negli anni del liceo e nei primi anni dell’università ero attratto da Lorca e Neruda, soprattutto per via dei dischi in cui i loro testi venivano recitati da Albertazzi e Foà. Dischi che facevo ascoltare alle ragazze che corteggiavo nella speranza che quei toni sensuali e colorati avessero su di loro un qualche effetto. Più forte e prolungato l’amore per i classici, in primis Virgilio e i lirici greci tradotti da Quasimodo. Molti autori del Novecento ho letto e amato: i tre grandi: Ungaretti, Saba e Montale. La casa dei doganieri è un testo che ha ispirato anche qualche mio verso. C’è poi la terza generazione: Luzi, Caproni, Sereni e Bertolucci. Il Luzi di mezzo, quello di Dal fondo delle campagne, è quello che ho sentito più vicino. L’occhio di Bertolucci sulla natura è particolarmente intenso e dettagliato. Sereni, con Non sa più nulla, è alto sulle ali, scrive la più bella poesia di guerra dopo le stupende liriche ungarettiane de L’allegria. La stretta unione tra lirismo e riflessione di Caproni è affascinante. Qualcosa debbo anche alla narratività pavesiana: le mie poesie raccontano sempre vicende, e non sono solo mai riflessione e illuminazione esistenziale.
In qualità di animatore di alcuni prestigiosi premi letterari, e professore all’Università di Urbino, hai avuto in più modi e più forme un ruolo di Maestro e osservatore privilegiato della realtà poetica contemporanea in Italia. Come autore, poi, hai portato e continui a portare i tuoi libri in giro per il paese. Esiste ancora, da noi, un pubblico della poesia? Chi sono, oggi, i lettori di poesia?
Come professore universitario ho fatto quasi sempre corsi monografici su poeti: piccola cosa rispetto ai tanti colleghi che hanno dato ai poeti spazi minimi rispetto ai narratori. Sono lieto di avere avuto tra i miei studenti, e magari per qualcuno favorito l’accostamento alla poesia, Franca Mancinelli, Elisabetta Pigliapoco, Alberto Fraccacreta. Nella scuola di cultura e scrittura poetica che ho diretto e sto dirigendo a Civitanova Marche penso che stiano raggiungendo buoni risultati Emanuela Capodarco, Riccardo Canaletti e Costantino Turchi. Ho anche aiutato a far conoscere un poeta importante come Feliciano Paoli, stimato da un grande come Yves Bonnefois che ha anche fatto la prefazione ad una sua raccolta. Come presidente del premio Metauro da me fondato, ho fatto arrivare attraverso l’instaurazione di una giuria popolare migliaia di libri di poesie in tutta la zona del Metauro e ben oltre. Anche ad Arenzano ho aiutato l’ottima Fabia Binci a scegliere questa dimensione per il premio da lei diretto. Ho letto in paesi minuscoli come Montelabbate e Loro Piceno. Talora mi hanno dato più soddisfazione queste letture rispetto a quelle fatte nelle grandi città. Sono lontano da chi pensa che la poesia possa avere una dimensione di massa, ma anche da chi si accontenta di un pubblico da archeologia assira. Dobbiamo cercare di estendere il pubblico della poesia e andare a cercarlo senza però per questo abbassare il tono, senza ridursi al rango delle canzonette, con tutto il rispetto per le grandi canzoni. Certo, per ora abbiamo un pubblico troppo limitato: anche quelli che scrivono poesie la leggono molto poco. La situazione non viene migliorata dagli pseudo poeti pubblicati anche dalle grandi case editrici, in quanto i loro followers sono buoni acquirenti.
Sei autore anche di opere narrative, romanzi come “L’estate dell’altro millennio” e “Cupo tempo gentile”, dove dai corpo alla tua passione per la Storia (il primo ha come sfondo la seconda guerra mondiale, il secondo il ’68 con tutte le sue contraddizioni) e racconti; “Anime perse” sono diciotto storie vere di un’umanità problematica a cui hai dato voce. In quale modalità espressiva ti trovi più a tuo agio, quale ti rappresenta più compiutamente? Cosa significa, per te, scrivere in versi o scrivere in prosa?
Mi sento soprattutto poeta, e critici e pubblico mi hanno accolto molto più come poeta che come narratore. Anche con i versi si può raccontare la storia, ma ci sono limiti. Se voglio descrivere la battaglia di El Alamein dove muore Ettore, l’amico del protagonista, ho bisogno della prosa, di un racconto particolareggiato. E io volevo raccontare una storia ambientata nella seconda guerra mondiale. Con Cupo tempo gentile volevo contrastare due poli opposti e manichei di vedere il ’68. Ho raccontato la contestazione non da pentito e non da apologeta. Da una parte l’ansia di trasformazione, l’impeto generoso della giovinezza, e dall’altra i modelli dittatoriali, le derive violente che preparano gli anni del terrorismo rosso. Scegliere la poesia o la narrativa è scegliere un modo di guardare il mondo. Meglio usare due lenti differenti. Ed io ho avvertito la necessità di usare entrambe queste lenti. Il libro di racconti Anime perse l’ho dettato, senza alcun foglio scritto sotto. alla segretaria di Ferruccio Giovannetti, che dirige il centro di recupero a Tena e che mi ha narrato le varie storie raccolte in questo libro. Una assoluta propensione all’oralità che credo piuttosto rara, e sulla quale hanno influito i racconti di chi ha dimorato nella casa accanto al fosso.
Vent’anni fa usciva “La fine della storia” di Francis Fukuyama. Oggi, nelle macerie delle città assediate e bombardate dai russi, quel libro è un lontano ricordo… In questi giorni mi è capitato di rileggere “Gli imperatori” di Fortini, un testo sulla guerra che ancora colpisce per la sua potenza. Che spazio rimane, oggi, per la poesia civile?
I poeti non sono profeti e spesso si sono anche messi dalla parte sbagliata. Le posizioni antisemite di Ezra Pound lo hanno portato a una vicinanza al fascismo e oltre. Neruda, Nazim Hikmet, i surrealisti francesi hanno parteggiato per Stalin o, se non per Stalin, per la dittatura sovietica. Molte poesie “civili” dei nostri anni hanno tonalità propagandistiche e settarie. I grandi poeti civili sono rari. Nella tradizione italiana va ricordato il Foscolo de I Sepolcri, il Carducci civile, Pasolini. In quest’ultimo i testi più belli ed importanti sono quelli dove la dimensione esistenziale si sposa con quella civile. A mio parere, dopo La religione del mio tempo, la vena civile del friulano si riempie di tonalità cronachistiche e giornalistiche. Se si pensa non ai risultati artistici ma alla visione politica e sociale, si potrebbe dire che il friulano ha colto benissimo i mali dell’occidente, ma ha quasi completamente taciuto quelli che dominavano i paesi oltre la cortina di ferro. Anche l’uccisione del fratello da parte di partigiani comunisti avrebbe dovuto, a mio parere, essere indagata di più nelle sue cause non solo accidentali. Faccio notare che la cultura italiana in genere, e non solo i poeti, prima del ’56, dei fatti d’Ungheria, non criticarono mai le dittature del “socialismo reale”. Talora le posizioni degli intellettuali, partendo dalle critiche al PCI, arrivavano a posizioni anche più estreme. Lo dimostra la grande simpatia con cui fu accolta dall’intellettualità italiana la rivoluzione culturale maoista: violenze ed orrori furono interpretati come positivo passaggio ad un mondo nuovo. Pasolini comunque è stato l’ultimo importante poeta civile italiano.
Di fronte ai bombardamenti in Ucraina i poeti prima di tutto, in quanto persone e intellettuali, dovrebbero fare sentire la loro voce. Certo, non è molto richiesta. Faccio notare che su Agorà, programma della terza rete, ogni giorno c’è un servizio speciale su uno scrittore che parla della guerra in Ucraina. Finora non ho visto nessun poeta invitato. Anche su Billy, rubrica del tg1 delle 13.30, al di fuori del discorso della guerra, non ho mai visto presentare un libro di poesie: in compenso non c’è mai stato un giorno senza che sia stato dato un grande spazio alla graphic novel. Scrivere poesie sulla guerra in Ucraina è un’altra cosa: si può condannare con totale determinazione e passione l’aggressione russa, senza per questo essere sollecitati a comporci una poesia. La poesia civile, se vuole essere tale, deve essere una necessità, un impulso irrefrenabile a scriverla come avviene per ogni altro genere di poesia.
Umberto Piersanti è nato a Urbino nel 1941 e ha insegnato nell’Università della sua città. Ha pubblicato numerose raccolte poetiche, tra cui I luoghi persi (Einaudi 1994), Nel tempo che precede (Einaudi 2002), L’albero delle nebbie (Einaudi 2008), Nel folto dei sentieri (Marcos y Marcos 2015) e Campi d’ostinato amore (La nave di Teseo 2020). È inoltre autore di saggi e di opere di narrativa (L’uomo delle Cesane, Camunia 1994; L’estate dell’altro millennio, Marsilio 2001; Olimpo, Avagliano 2006; Cupo tempo gentile, Marcos y Marcos 2012; la raccolta di racconti Anime perse, Marcos y Marcos 2018) e ha realizzato il lungometraggio L’età breve (1969-1970) e i film-poemi Sulle Cesane (1982), Un’altra estate e Ritorno d’autunno (1988). Dal 2016 è presidente del Centro mondiale di poesia “Giacomo Leopardi” di Recanati.