«Il Cielo fu creato dal Fuoco, la Terra fu creata dall’Acqua e l’Aria dallo Spirito che decide tra di loro», recita una delle pagine del Sefer Yetziràh (3:4). In Gen 2,7 (cf. tuttavia anche Sap. 15, 11) si legge che Dio ha alitato nell’uomo il suo soffio divino come soffio di vita. Il suo gesto è atto di creazione assoluto; non basta infatti solo la polvere del suolo per plasmare l’uomo ma anche quello che è la ruah, il respiro, la forza che mette in movimento, che dà l’ordine alle cose e precede e permette l’articolazione della parola. Della valenza del fuoco in seno alla tradizione biblica e filosofica così come nella mitologia non serve dire molto di più, in quanto altri già hanno detto: esso è creazione e distruzione, e di lui Plotino dice che è «bello perchè risplende e brilla insieme all’idea» (Plotino 1, 6, 9).
Su questi due elementi, legati fortemente all’atto creativo, si costruisce anche l’ultima raccolta di versi di Tommaso Meozzi, nome già presente nel campo della produzione poetica con sillogi come La superficie del giorno (vincitrice del premio Contini-Bonacossi-opera prima), Inquieta alleanza (premio della giuria nell’ambito del Premio Rimini per la poesia) e Dove sei. Suddivisa in tre parti, con titoli che semanticamente avvicinano ancora di più il lettore al taglio voluto, Di fuoco e fiato (questo il titolo del volume) presenta un totale di 63 componimenti di varia lunghezza e vario argomento, seguiti da una breve postfazione di Andrea Donaera. Doneara definisce la scrittura di Meozzi come una «scrittura che è allo stesso tempo fragile e poderosa, gracile e massiccia» (79), leggendo nella stessa «un espediente per respirare nel marasma magmatico della circolarità del mondo esterno» (77).
Che cosa faccia parte di questo mondo esterno Meozzi ce lo fa intendere in modo spontaneo e fluido, facendoci riscoprire l’essenza delle cose, anche di quelle più semplici, accompagnandoci per mano alla scoperta di angoli di vita e di cielo forse “non visti” e rintracciando percorsi. I versi sono accolti in pagine da cui emerge un’intensa liricità meditativa e un raffinato lavoro sulla parola. Si tratta di una parola che esprime il visto, il vissuto, il sentito; una parola che dischiude significati del proprio e altrui destino, capace di mettere a fuoco momenti felici e altrettanti attimi di dolore; una parola che porta alla luce storie invisibili, che accorcia le distanze tra uomini, che si rivolge a conflittualità e separazioni; che fa emergere memorie e voci.
Volti, percezioni ed emozioni si amalgamano nei versi qui raccolti a luoghi e spazi che colgono con intensità la passione e il dolore sommerso dell’io lirico che ripone, sistemandole con solerzia, le tessere del mosaico della propria identità, e ripercorre scelte fatte, gesti anche appena accennati e relazioni concluse, ma anche quelle ancora da iniziare o da riprendere. È una scrittura, quella che Meozzi ci presenta, dalla luminosa potenza; una scrittura rivolta all’altro da sé, in cui è possibile riconoscersi e rispecchiarsi, comprendendo non da ultimo la propria frammentarietà di uomo tra gli uomini.
Ci sono itinerari e percorsi, persone, dettagli di vita che pulsano di pagina in pagina in giochi di luce che incidono la parola e la sua forza. Stride di fronte alla tensione verso l’infinito la finitudine dell’esistenza umana e lo schianto di fronte alla carne e al sangue dell’anima (42), «vasca di liquido vitale / in cui affiorano ricordi» (45), come la si definisce; spazio puro, eppure in relazione con le cose. Attento osservatore di ciò che lo circonda, l’io lirico è dei versi anche principale protagonista. Ma il suo andare non è conclusivo in se stesso, in quanto è anche il muoversi del mondo, e il suo guardare, che si sposta di continuo, si rivela un’osservazione che vuole trovare il senso non solo del suo percorso.
Alla pari di un viandante capace di lacerare, recuperandolo, l’orizzonte delle cose perdute, di sentire e far sentire i suoi passi, di capire l’importanza anche di un solo istante vissuto, il poeta attraversa con la sua voce la precarietà sociale di un’intera generazione, si confronta con la figura di un padre, ma anche di un figlio, di un uomo dalla fede incerta, ecc. Gli sfondi sono in questa raccolta, tra gli altri, paesaggi urbani, aree industriali dove solo «il cielo che spalanca / un carnato di stelle» (58) può far non sentire l’estraneità dell’umano, scorci di interni abitati intessuti su (e avvolgenti) architetture dell’anima. Il Reno, fiume caro a nomi come quello di Victor Hugo e di Heinrich Heine, scorre con le sue acque anche qui davanti agli occhi di chi lo osserva con i suoi riflessi e le sue increspature: il suo fluire è un movimento duplice, molteplice, territorio che entra nella biografia di Meozzi, punto d’incontro e cerniera di più culture. Irriducibile, il fluire delle acque è il fluire del tempo di fronte all’istante e alla storia, ma anche il ritratto di uno scorcio che sbatte in faccia una natura travolta dall’umano (71), come l’Elba nei versi del cantastorie rivoluzionario e poeta tedesco Wolf Biermann (v. Anne anne Elbe).
La cifra caratterizzante l’opera è nel volume di Meozzi il quotidiano che subito sfugge, ma anche il quotidiano fotografato in un quadro sospeso nell’onirico, e una realtà che si colora a tratti nello sguardo di una bambina che «manipola il mondo che cambia forma, / sogna di prenderlo / riflesso negli occhi» (63), osservando ignara del suo più brutale significato ad esempio l’ultima pandemia, guardando «le maschere di mille colori / come farfalle sopra le bocche» (60). Di fronte a lei il lettore si trova davanti a una creazione, che è altra, perché libera da ogni calcolo e previsione; una creazione che è comunicazione senza alcun tipo di imbarazzo nell’articolazione delle prime parole che la mettono in contatto con il mondo.
La sua ricerca diventa allora ricerca parallela a quella del poeta; è esplorazione della parola, gioco con essa, rincorsa nuova e, non da ultimo, rifrazione e trasfigurazione dell’esperienza. Poesia della realtà, quella dei versi qui raccolti, essa si trasforma nella scrittura duttile di Meozzi in poesia a tratti immaginifica che lascia trasparire, insieme a lievi venature di malinconia, un senso di riordino delle cose.
I componimenti mancano di titoli. Al posto di questi ultimi vengono posti degli asterischi, perché ogni pagina non vale meno dell’altra e perché ogni testo necessita di una spiegazione che non può essere data nell’istantaneo e che non viene data da chi scrive, visto che essa è da ricercare e da saggiare scorrendo i versi. Non ci sono maiuscole nelle sequenze che compongono queste poesie, orizzonte tuttavia non privo di sporgenze, anche per l’uso della virgola, unico segno della punteggiatura con cui Meozzi struttura i suoi componimenti.
La poesia è ascolto, impatto fisico, attrito del suono, sguardo dentro di sé e fuori di sé. «Saper ascoltare significa possedere», diceva qualcuno, riempire il proprio e l’altrui vivere. Porsi alla ricerca della responsabilità della parola è allora schiudere e compiere un percorso, avere fiducia nella capacità della creazione, compierla.
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Tommaso Meozzi (1984) è ricercatore all’Università di Graz, dove tiene corsi di lingua, cultura e letteratura italiana. I suoi ambiti di interesse riguardano la rappresentazione letteraria del lavoro, la poesia dagli inizi del Novecento a oggi, il genere della distopia e l’apprendimento linguistico. Con la raccolta di poesie La superficie del giorno (Le Cáriti, 2010), ha vinto, nel 2013, il premio Contini Bonacossi-opera prima. Nel 2017 ha ricevuto il premio della giuria nell’ambito del Premio Rimini per la poesia con la raccolta Inquieta alleanza, pubblicata nello stesso anno per Transeuropa. Sul numero 92 di «Atelier» (dicembre 2018) è uscita la sua silloge inedita Dove sei. In prosa ha pubblicato i racconti La badante (Nuovi Argomenti, n. 78, aprile 2017), Il pavimento (Risme, n. 3, settembre 2019) e Per sempre? (Fiorentini per sempre, Edizioni della Sera, 2020), Abisso e Nenni («Bollettino ‘900», n. 1-2, 2020) e Far west («Carte nel vento», n. 50, marzo 2021). È autore di un volume sulla distopia letteraria (Visioni dell’alienazione, Pacini, 2017) e, tra gli altri, di articoli su Dino Campana e Paolo Volponi.