Temeraria gioia, Eleonora Rimolo (Ladolfi 2017)
Nota di lettura di Alfonso Guida
“Temeraria Gioia” doveva chiamarsi inizialmente “Anomalie”. Penso: alterazioni animiche, non stati modificati di coscienza anonimi. Qui la parola si incide nel volo del rischio. Qui il magma si asciuga in fretta e viene scolpito in forme ferme da una mano di qualche divinità sotterranea. Luce e negritudine. Si risvegliano parole come “amazzone” per Eleonora. Nei suoi testi si avverte la potenza e lo straripamento, l’energia dell’argine. L’educazione classica, il rigore della cifra latina. Eleonora, in Grecia, è una poetessa spartana che si rincuora con le morbidezze architettoniche dell’estetica ateniese. Ma resta nel suo stato la discendenza da una famiglia di vulcani. La ferita viene subito risanata. La nostalgia non è una secrezione. Non scorrono bave. Ci si chiede se è orfanità, proscrizione o diserzione. Perché Eleonora intesse un arazzo con le grandi scene della storia, i tumulti, lo sviscerarsi, le sfide. Questa è una poesia dai grandi temi il cui retroterra è sicuramente un atteggiamento esistenziale, una postura scelta. La marzialità è in Eleonora, nella sua quotidianità, prima ancora che nei suoi versi. Poesia che non implica l’acrisia, la combatte con l’acribia. Lo scontro è tra individuo e Parche, tra divenire e filo reciso, tra il senso rappreso dell’eterno e il patto di sangue. Non pietrifica la parola di Eleonora, non è una gorgone. Dedica una poesia a De Angelis e di quest’ultimo ha per ereditaggio una campionatura di figure femminili montagnose, atletiche. Eleonora è giovane. Il suo agonismo è sincero. Corre senza perdere l’oggetto della sua memoria personale e letteraria. Registra, infuocata, la siccitosa condizione del sentire contemporaneo, le sue lacune, le sue insensatezze. Ma l’insensatezza non sfiora la sua capacità di introspezione, come vorrebbe Vittorio Sereni, né il suo sguardo con un orizzonte ben radicato e sempre mutevole. Refoli di torbiera e iridescenza: mi sembra questo la meteorologia di un paesaggio come quello subumano, suburbano descritto. Si affaccia la destinale compostezza della Russia. Marina Cvetaeva semina agguati dietro ogni sillaba. Giovanna Sicari è l’armeria dove Eleonora attinge. Ma tutto resta in una nube orfica. Viene in mente l accostamento di due parole in una poesia di Milo De Angelis, una poesia del suo tempo di crisi: “nube, nulla”. Qui, però, la percezione del nulla diviene percezione di un esistente, senza cromatismi. Non è un nulla che minaccia dal mirino della nientificazione. Il nulla che permea i versi di Eleonora è un tassello dell’intero mosaico che non domina, pari a tutta la cosalità e umanità consultata. Tra i “diseredati della parola” che oggi vivono, immiseriti, di stenti interiori, Eleonora spicca come virtuosa diseredata. Voglio dire che la sua mano, attenta e avida, raccoglie ciò che resta. Fruga tra la polvere dei templi e delle sentenziosità palatine. Cerca sinopie, encausti, affreschi. La mente insinua figure tanto portentose quanto aeree o acquee. I margini degli usi figurati della lingua si schiantano addosso al lettore, ustionandolo. I colori del fuoco. E poi “pulvis et umbra” come recita il nome di una delle sezioni del libro. Pulvis et umbra in sanguine – aggiungerei – pulvis et umbra in corpore. Dal primitivo slancio onnicomprensivo si evidenzia, nel groviglio dell’imponderabile, un persistente sentimento di gioia. Qui la gioia non è una sensazione, una fuggevolezza, ma una forza salda, una forza del più serio gioco d’azzardo. La poesia si incammina esplorando, nervosamente curiosa, per trarre dall’occasione un dettame. “Io sono una che esperimenta con la vita”, diceva Amelia Rosselli. Eleonora getta ogni dado sul tavolo da gioco. Il sacrificio è un salto fiducioso nel baratro.