Sonetti teologici di Agustin Garcia Calvo (tradotti da Lorenzo mari), (l’Arcolaio) – Nota di Stefano Pradel.
Agustín García Calvo (1926-2012) è stato senza dubbio una figura complessa all’interno del panorama culturale e artistico spagnolo. Linguista, poeta, drammaturgo, saggista, traduttore e filosofo, è stato insignito in diverse occasioni di prestigiosi premi che hanno riconosciuto l’importanza del suo lavoro nei diversi ambiti delle lettere.
I Sonetti in questione appaiono a modo di prologo del lungo poema in versi liberi Sermón del ser y del no ser (1972) e si tratta senza dubbio di un esercizio dalla componente ironica, per la quale il filosofo utilizza una forma chiusa come mezzo espressivo per un «pensiero raziocinante e sillogistico» che, proprio nella Spagna franchista, incontrava paletti e paratie in ogni dove (non a caso, il Sermone viene composto durante gli anni dell’esilio parigino). Ci troviamo di fronte a un esempio di riscatto di un pensiero cantante che vuole ritornare all’origine del linguaggio, a quello stadio di innocenza anteriore alle sovrastrutture di potere che lo degradano, per farne, da questo luogo, territorio di resistenza e sviluppo di un contro-discorso che dia un nuovo senso alle mallarmeane «parole della tribù».
Il libretto si presenta diviso in tre parti, che soddisfano ampiamente i tre requisisti necessari a una comprensione tridimensionale della poliedrica figura del pensatore spagnolo: collocazione etico-estetica all’interno del panorama culturale iberico ed europeo, concretizzazione del fare poetico e approfondimento del suo pensiero poetante. Ovvero, dopo una breve ma approfondita introduzione riguardante la figura di García Calvo, ci troviamo di fronte ai due sonetti che danno titolo alla plaquette, per concludere con un’intervista condotta dai poeti David Eloy Rodríguez e Laura Casielles.
Si ha qui l’occasione, per un momento, di collocarsi in un tempo antico, anteriore allo scisma dettato da Platone, in cui poesia e pensiero filosofico, seppur calcando strade apparentemente divergenti, ambivano alla stessa meta condividendo proficuamente lo stesso mezzo. García Calvo si riappropria di uno strumento considerato per secoli inadatto e inaffidabile alla conduzione del pensiero, all’esplorazione di qualsivoglia episteme situata al di fuori della sfera individuale. Per quanto riguarda i filosofi, si tratta di un’operazione che, nello spazio geografico e storico della penisola iberica, trova un numero esiguo di tentativi e, al di fuori di Unamuno e Zambrano, un numero assai minore di realizzazioni di successo. Lo stesso non si può dire dei poeti, che afflitti forse dalla coscienza di un diffuso e crescente discredito “sociale” della poesia (o forse da una generale diffidenza del proprio mezzo), hanno tentato per tutto il XX secolo di ricucire lo strappo tra parola cantata e parola pensante. L’obbiettivo era, ed è, la ricostruzione di una poetica del logos, il cui carattere è stato delineato da George Steiner nel suo The poetry of thought, avulsa dalla transitorietà di mode, scuole, gruppi o generazioni e che in Spagna trova importanti esponenti già a partire da Luis Cernuda e un referente “filosofico” nell’opera della stessa Zambrano.
L’impresa di Mari, quindi, merita un doppio plauso. Quello dovuto alla figura del traduttore, che anzitutto qui si cimenta con i limiti imposti da una forma chiusa e ne supera con agilità i trabocchetti; e quello dovuto all’operazione di “recupero” e divulgazione di un pensatore poco conosciuto in Italia e che, dalla frontiera della lingua, ha molto da indicarci.
Stefano Pradel
Agustín García Calvo, Sonetti teologici, cura e traduzione di Lorenzo Mari, L’arcolaio, Forlimpopoli, 2019, pp. 47, € 10,00.