“Prose buie” di Marco Ercolani, nota di lettura di Alfonso Guida
PROSE BUIE segue un figurante, lo straniero, e un luogo, il non – luogo. La prossimità al non – luogo è l’avamposto, la cittadella militare, la torre di vedetta. Lo straniero incontra. Non sapremo mai se incontra realmente o nei suoi sogni notturni o nell’immaginazione che in questi racconti ha un’accezione edificante. Un’immaginazione che arricchisce perché aiuta a comprendere il reale, non una dimensione alternativa in cui ripararsi dai continui paesaggi industrializzati, antropici. Potrei occuparmi solo della geografia di Prose buie ma non ora. C’è ben altro. C’è l’importanza degli elementi universali e il rapporto che un omino di vetro, trasparente e in corsa, o l’omino di Chagall hanno con l’aria e l’acqua. Il fuoco è lapilli e ceneri, vulcani. Il fuoco è preistorico e il tempo qui è sospeso e contemporaneo. La terra è oggetto di studio astronomico, fisico, di arcaica filosofia quando a dominare erano i rudimenti del pensiero, non i sistemi. Il racconto “Sul bordo dell aria” commuove per un gesto ascetico dal principio kafkiano. Rompere il quaderno della propria opera, gettarlo di notte nella pioggia dall alto di un campanile. Per giungere alla coscienza del necessario “tacere”. Si tace, non ci si lamenta–sembra che Van Gogh faccia eco a Marco. Lo straniero fa. È uno scrittore. In Prose Buie stento a non riconoscere nel fantasma toccabilissimo dello straniero un Alter Ego dell’aurora che spicca negli ambienti marini, tra spiagge e fossili, Genova, quasi un alga rappresa. Ercolani scrive “Ogni uomo viene dalla mente di un altro che, prima di lui, ha pensato e sognato quasi come lui”. Appare la riserva del “quasi” che potremmo benissimo togliere. Siamo i nostri condizionamenti, le persone incontrate, i libri letti. Si parla di una Bisanzio di provenienza. Veniamo da una città depauperata, saccheggiata, “senza ori e senza poeti”. E questo singolare sentimento dell’assenza porta al deserto, all’assenza di Dio, al vuoto concepito dalla scrittura come atto sovversivo in E. Jabes. Ci sono prose con passaggi memorabili: “Il sonno sfugge sempre a chi dorme, come all’artista il senso della sua opera”. Marco si chiede se l’arte sia inconcepibile ma vacilla, lo sentiamo vacillare, tra il desiderio e il deserto, tra la necessità e l’imprevedibile, tra un passato che confluisce nell’oggi è un futuro a cui si avvicina con un disincanto dolce e tumultuosamente sardonico. Il sonno come altro, presenza esterna dalle cui mosse dipende la nostra tregua. Il sonno nella visione originale è bellissimo dono di un “Io sconosciuto, inseparabile da noi”. Marco sognatore va tra gli dèi junghiani, non si interessa minimamente di idoli veterotestamentari o evangelici. C’è un incipit strabiliante che ricorda certe poesie di Amelia Rosselli sulla Roma serale. C’è un incipit davvero moderno: “All’ora del tramonto tutti aspettano l’autobus”. A Marco interessa la parola. L’importante è che sia capovolgibile. La prosa “Come sentirle” è un atto d’amore alla poesia, una promessa di presenza. Ci si chiede della Visione. E Marco come fa Deleuze col desiderio cerca di individuarne le modalità da cui si sporge. È nel come, nella posizione, ribadisce Marco col tono di chi, apprese le notizie dall inconscio, si chiede come catalogare, se farne turbe o razze. Si giunge a un compromesso: il sonnambulismo. Il ciclo immodesto è circolare della ripetizione, il sogno è l’incubo, la vanità dell’espressione artistica, il suo sgretolarsi fino a perdersi. La scrittura di Marco è prodigiosa e prodiga di doni: “Assumere in sé la voce dell’altro è un atto d’amore e di identificazione in un destino”. Ecco la motivazione ai tanti apocrifi di Marco, il senso di uno sperato sentire comune, che avvicini l altro e lo ricrei in un apocrifi a senza scadenze. Qui la scrittura non è cura né uccisione. Non è pharmakon. È la parola che testimonia del molteplice reale, della mente che è reale anche quando vola se lo può visualizzare. L’indagine ferma sulle Istituzioni Totali, gli stati di estrema reclusione, i linguaggi escogitati da carcerati e secondini, da una scolta suprema, da una Corte d Appello che non condanna ma presiede come una mummia. Marco segnala di queste coercizioni l’ingiunzione al mutismo come dal concilio tridentino alla fine dell’800 è stato fatto col sesso secondo M. Foucault. Le piazze sono un po’ di mare un po’ di villaggi nordici. Ci sono i montanari, i monaci, le donne. Ci sono i messaggeri che non possono parlare e sanno che devono, detentori di segreti imperiali, dignitari della tragedia umana, vittime del mutismo, della parola che si sforza ma non può uscire. Bocca cucita con filo spinato. Deportazione e Orfanita dello straniero. Villeggiante per contrade mai cupe, mai beckettiame, semmai buzzatiane, come nella bellissima prosa “Hailai”, sul segreto della sapienza tramandata ai figli e ai figli dei figli in condizioni di estrema coartazione. Prose buie sono referti da un paesaggio della follia, geograficamente folle, foce di più mappe. Marco è fedele al fulmine di Valery nel ricordare la nascita dell’arte, ma non dimentica la spettralita derivante dal cristallo rifratto. Sono scritture che inquietano per la tremenda oscillazione dei volti e dello sguardo che li dissemina.