di Eleonora Rimolo
Cosa avreste preferito che facessi? Fare un balletto, accennare passi di danza al suono di qualche musica dei tempi andati? O raccontarvi del mio ultimo sogno kafkiano in cui mi viene imputato, in quanto poeta, il reato di umanità? E invece no. Ho soltanto provato a pensare e a inventare un seminario di studi. Sì, di studi ora che non sono più di moda, almeno nel mondo della poesia. Un modo per tornare a sillabare un alfabeto che sembra spazzato via dalla velocità dei nostri tempi. Un vero seminario di studio, a partire non da idee preconcette ma da un temario iniziale e inventando poi percorsi possibili e individuando giovani che potessero essere interessati. Un tentativo di trasmettere un’eredità ai giovani, di ravvivare una memoria nella speranza che sappiano farne tesoro, loro e chi ascolterà. Questo è “il futuro nell’antico” del titolo, nella duplice prospettiva delle scelte di “Prato pagano” all’epoca e di un monito per oggi, se si vuole evitare la superficialità e l’asfissia. Un seminario come finissage della mostra “Prato pagano e la poesia degli anni Ottanta”, che ho curato con Eleonora Cardinale alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e ha trovato posto nel nuovo Museo Spazi900 (si potrà vedere fino al 22 ottobre). Mi piace leggere i saggi sulla poesia dei giovani, ce ne sono di bellissimi, mi piace qui citare quelli di Francesco Giusti, che purtroppo non è potuto venire. Si deve studiare, non si può affidare tutto all’emotività, all’istante, al presente che, per noi, è il web, una meraviglia il cui uso richiede sapienza. Il presente svanisce in un istante, neanche ci stiamo dentro che già è passato. E la poesia è un congedo, un perenne congedo. Bello il titolo che Roberto Deidier ha scelto: L’arte di voltarsi indietro. Questa è dopotutto l’arte della poesia e i poeti somigliano ad Orfeo che prova disperatamente a far rivivere l’amore, un viso, i luoghi che non ci sono più. E bello quello di Lucia Dell’Aia, “Dolci chicchi rubini”: la poesia mediterranea di “Prato pagano”. Mi aspetto qualcosa da Paolo Rigo che pone una questione centrale e per niente scontata: Petrarca in “Prato pagano”? E poi ci sono le letture dei “Quaderni di Prato pagano: Salvia, Sica, Damiani e Rech” (Damiano Sinfonico), di Beppe Salvia (Simona Bianco) e di Pietro Tripodo (Eleonora Rimolo).
C’è qualcosa, in particolare, che possono – e che dovrebbero fare i poeti oggi?
Qual è l’intento del convegno che si terrà lunedì presso la Biblioteca Nazionale di Roma?
Tento di salvare quello che andrà perduto, chissà che non resti qualche traccia, un’orma dei nostri piedi (poetici) con cui calpestiamo la terra. “Prato pagano” non è stata solo una rivista, ma un tempo magico vissuto negli anni Ottanta. Era finita la fase della gavetta e degli studi universitari, mi sentivo sola e come per incanto, davvero per magia, si materializzò quasi una generazione nuova di poeti, compagni di un bel pezzo di strada. Qualcuno sarà con noi lunedì, qualcuno se n’è già andato via. Rimane come un sogno. Rimane una bella esperienza di giovinezza, di comunità, di un noi che ovunque, e anche tra i poeti, si è disperso, naufragato nell’ego dei singoli che sta diventando accecante.