Poesia e autismo: Autism Spectrum di Patrizia Sardisco (Arcipelago Itaca, 2019)
di Giuseppe Martella
Caratterizzato da una densità fonosimbolica pari a quella concettuale, Autism Spectrum di Patrizia Sardisco è come un file compresso, da cui si può estrarre la ricca informazione se si possiede una chiave alfanumerica così come suggerito dai contrassegni (n#) delle singole tessere di questo archivio di una esperienza terapeutica, di un sapere dolorosamente maturato e di una mappatura incompiuta: quella dello spettro autistico di cui nel titolo. L’accumulo (elenchi e asindeti, anafore e iterazioni) è infatti un procedimento diffuso nel testo, così come la paranomasia, a indicare lo scollamento fra significate e significato caratteristico della sindrome in oggetto, virtualmente votata a un rapporto irrazionale fra parte e intero, sistema e ambiente. Tale rapporto ha il suo simbolo matematico nel numero aureo, la divina proporzione o costante di Fidia, che esprime il medio proporzionale fra un segmento e la sua parte rimanente: esso si ritrova nelle forme più belle della natura e dell’arte, ma è un numero irrazionale, scandalo nel cuore del calcolo, crepa nell’armonia del cosmo. Esso esprime i limiti inerenti a ogni commisurazione fra la parte e l’intero, e dunque l’ineliminabile rischio della incompiutezza e della disfunzione di ogni forma di vita. La formula della divina proporzione, dell’armonia del cosmo, rimane una infinita approssimazione, un principio speranza da sottoporre a continui dubbi e prove, in una incessante apertura di orizzonti.
Di ciò ci parlano infatti le sofferte variazioni sulla “prova” contenute in questo testo di Sardisco (42-46), caratterizzato proprio da un dialogismo di fondo fra pedagogia scientifica (mathema significa “apprendimento”) e invenzione retorica (uso delle figure del discorso) che si traduce in una sorta di somatizzazione della parola pronunciata e offerta, ai limiti del dicibile e dell’udibile, nella reciprocità del vincolo fra medico e paziente, nell’esercizio della cura, sia pedagogica che esistenziale. D’altra parte, la cornice di quest’opera, costituita dalla motivazione iniziale del premio conseguito e dalla perspicua postfazione di Anna Maria Curci, orienta già perfettamente la sua ricezione, mettendone in evidenza i tratti salienti e le questioni sollevate.
In questa breve nota, mi propongo perciò solo di prendere spunto da questo testo per porre in termini più generali e prosaici la questione del rapporto fra poesia e autismo, considerati come due poli opposti della comunicazione umana. Per quanto ne so, l’intero spettro autistico, inteso come gamma delle sfumature di una sindrome misteriosa e refrattaria alle terapie, è attraversato da un fantasma: l’irruzione del Reale che incrina o annichilisce l’ordine del Simbolico in coloro che ne sono affetti. Così infatti nel testo: “corpo/ in fuga prospettica in un punto/ dal lembo del fantasma dello spettro” (39). Considerando freudianamente la psiche come un teatro i cui attanti sono l’es, l’io e il super io, il Reale (nella accezione di Lacan) appare come una sorta di congiura dell’es e del super io, cioè delle pulsioni organiche e delle pressioni ambientali, che minacciano l’integrità di un io fragile e assediato come quello dell’autistico. A questo proposito, numerosi e illuminanti sono i riferimenti del testo che qui non possiamo riportare per intero. (23, 32, 36, 37, 51, ecc.) Ne basti uno per tutti: “è un locale con troppe fermate/ la tua ipertrofica istanza appercettiva/ suburbana frenesia/ nella periferia dell’attenzione”. (52)
Generalmente si tende a considerare l’autismo come una specie di agnosia, o deficienza cognitiva, ma questo concetto mi pare inadeguato a spiegare le sue varie manifestazioni, poiché l’autistico, specie nei casi altamente funzionali, può comprendere benissimo concetti anche complessi ma non altrettanto le loro implicazioni pragmatiche. Mi sembra molto più conveniente invece il concetto di “disprassia”, purché la si intenda però non soltanto come movimento alterato o incontrollabile, (26, 29, 48) quanto piuttosto come una più radicale incomprensione delle implicazioni sociali del gesto e della parola. (12) Per chiarire, nel caso della comunicazione verbale per esempio, non si tratta tanto dell’incomprensione degli enunciati quanto piuttosto del motivo della loro enunciazione, cioè del valore performativo dell’atto linguistico che con essi si compie. La disfunzione insomma non riguarda tanto la semantica o la morfosintassi della lingua quanto la pragmatica della comunicazione umana. Perciò, per esempio, l’autistico manca d’ironia (figura che verte sulla tensione fra enunciato e intenzione) e di senso dello humor.
Delle cause di questo disagio comportamentale si sa poco: propendo a credere che l’autistico, lungi dall’essere un individuo murato in sé stesso, sia un corpo d’anima eccessivamente aperto al mondo, sovraesposto da un lato agli stimoli dell’ambiente (“ipertrofica istanza appercettiva”: 52) e dall’altro alle proprie pulsioni organiche. I suoi atteggiamenti di chiusura sarebbero pertanto reazioni di ordine difensivo ed elusivo, come lo sguardo laterale che schiva l’incontro diretto con quello altrui. L’autistico è caratterizzato da una iperestesia fisica e da un disinteresse psicosomatico primario ed essenziale, prelinguistico e precognitivo. Egli è come un corpo senziente dalla pelle troppo sottile e trasparente (“tra un fuori fosforo e un dentro opaco”: 49) per cui si trova sovraesposto agli stimoli del proprio ambiente e alle incombenze dell’essere con altri. Questa condizione appare oggi tendenzialmente condivisa con i normotipi della nostra società della trasparenza, della prestazione e dell’incenerimento neuronale, nel villaggio globale e nel tempo reale di internet, ultima versione della rete di Ananke. Perciò la densa e appassionata resa poetica dell’autismo da parte di Patrizia Sardisco può risultare davvero una allegoria della nostra condizione attuale, dove la molteplicità degli stimoli tende a stravolgere l’economia psichica e le cose intorno a noi stentano a farsi mondo.
Rispetto a una polarità ideale dei comportamenti umani, l’autismo mi pare poi l’opposto della poesia nella misura in cui quest’ultima è votata alla produzione di un surplus di senso, mentre il primo è invece contrassegnato da una sua deficienza. Come se in esso il senso fosse già sempre affondato nel mare delle sensazioni (“l’informe resta gesto/ un bolo il significato indigerito”: 40), sicché sulla soglia labile fra dentro e fuori, sagacemente esplorata dai versi dell’autrice (“soglia del dolore soglia/ della rabbia della sabbia risata”: 22), (“il dentro/ la spiaggia sterminata bianca e oscura… il fuori/ la membrana testacea/ la perla di sudore”: 23), il debole io autistico cerca forse proprio una sorta di compensazione fisica al decentramento psichico di cui soffre, il che spiega la sua attrazione per i giochi centripeti del rocchetto e della trottola, o per i movimenti pendolari dell’altalena. (16, 20) Del resto, la trottola e il rocchetto figurano fra quei giocattoli di Dioniso infans che compaiono nella scena del suo smembramento rituale da parte dei Titani, archetipo di quello stadio dello specchio di cui parla Lacan, cioè del momento della separazione fra essere e coscienza, dell’irruzione del molteplice nell’uno: dove una donna, madre-nutrice, gli regge uno specchio in cui egli si vede circondato dai Titani che, indossando maschere bianche come la sua, lo stringono danzando in cerchi concentrici fino a farlo a pezzi coi loro coltelli. E’ la scena archetipica dello sparagmos dell’essere nella coscienza incipiente. Nel mito, i pezzi sparsi del fanciullo divino verranno poi bolliti in un calderone e ricomposti in forma luminosa dal fratello Apollo. Tale ricomposizione è verosimilmente preclusa all’autistico, che non diviene mai del tutto soggetto del proprio mondo e del proprio discorso.
Tutto ciò è mirabilmente espresso nell’opera di Sardisco, a partire proprio dalle allocuzioni alla sua piccola paziente autistica: “un lato umano asintotico” (9), “pensiero cirriforme deflagrato” (25), “soggetto fittizio e fluttuante mai definitivo” (50), “pensiero divergente” (57). “voce inesplosa”, “essere fuori campo”, in transito incompiuto fra l’angelo e la sillaba: “l’anima animale accumulo sul gesto/ il transito veloce di una refe/ nel lago pensiero/ lo sbrego il gorgo l’ardua gora del giorno/ la parola” (14), ma infine poi meraviglioso “grumo di illogica poesia” (22). Così come l’ombra del pensiero nelle sue disarticolazioni psicosomatiche: “dentro il parossismo il gesto/ è luogo del pensiero” (26), “le mani intermittenti/ tra il niente induttivo e un pensiero abusante” (29). L’incontro con uno sguardo talora liquido e obliquo, talaltra opaco e tagliente, in un profluvio di luminose metafore: “delfinario di occhi” (16), “lente d’acqua” (33), “cloro in un loro cielo” (12), “strabismo sorpreso” (14), ma anche “glauchi frammenti aguzzi” (17) e “scotòma lunare” (21). O con la sua verbalizzazione impedita, la faglia tra grido e pensiero: “l’estensione incorporea della cosa/ non nomina lo sbrego e l’arco cicatriziale/ non accorre a soccorrere/ non dirime/ il grido dal pensiero/ il grido del pensiero.” (24) O tra suono e senso: il flatus vocis che non diviene significante (41).
Infine l’impietoso e toccante riconoscimento da parte della docente dei propri fallimenti psicagogici, dei limiti della propria professione (“lontana dal tuo bisogno/ la mia mano è piccola”: 18), unito però alla fede tenace di sciogliere questo nodo genetico: “che il tuo loop si irradi di parola/ non di passaggi all’atto sola/mente” (20), nella reciprocità della cura: “l’amo mio d’amore/ è una pedagogia del fiato del respiro” (32); ma anche “liberami dal male/ significante debole/ pensiero che non dice/ che non si può parlare” (38). Fino all’esemplare innesto della funzione poetica su quella pedagogica, “ti chiamo e l’eco vuoto/ è l’ecolalia che rima/ la mia inappartenenza/ la tua eteronomia” (57) e alla manifesta specularità di pedagogia poetica e disordine autistico: “la culla allocutoria io – tu/ pedagogia di metro e nomina” (58) Il tutto messo in opera ai limiti di una deliberata “vertigine retorica” (17), che investe tutti i livelli del testo (dal fonico ritmico al figurativo) risultando però sempre perfettamente funzionale all’economia di un discorso che scava ai limiti del gesto e della glossolalia per saggiare “la tenaglia la faglia il maglio il deraglio/ il groviglio/ l’imbroglio ferino del passaggio all’atto” dell’ “anima animale” (14), in una perfetta aderenza di espressione e contenuto, con grumi fonetici che mimano quelli esistenziali dell’autistico: “grumo qui petroso/ qui dove dico la tua saggezza illogica poesia”. (22)
Per chiarire ulteriormente infine ciò che intendo per complementarietà fra autismo e poesia, mi pare opportuno riandare con la mente a due fra le più perspicue definizioni che di quest’ultima siano mai state date: quella di una “prolungata oscillazione fra suono e senso” (Valery), e il suo essere il prodotto di “un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi” (Rimbaud). Questi che per il poeta sono stati privilegiati e risultati di un lungo esercizio, per l’autistico sembrano essere condizioni persistenti e insuperabili. La complementarità fra autismo e poesia è come quella che passa fra significante e significato, la cui scissione è il marchio della sindrome in questione. Si può pertanto avanzare l’ipotesi che l’autismo costituisca il grado zero della poesia, così come d’altronde ci suggerisce il nostro testo dove l’autismo appare come poesia “dirottata/ dirotta dirompente” (25), “pura metafora” (28), oppure “significante debole/ pensiero che non dice/ che non si può parlare”. (38)
A conforto di tale ipotesi è infine anche opportuno rammentare che la funzione originaria della poesia era la trasmissione del costume di un popolo, nelle civiltà a tradizione orale. Per cui nel rapsodo omerico, per esempio, la figura del poeta riunisce quelle del saggio, del veggente e del pedagogo: colui che, mettendosi in gioco in una performance occasionale, si fa memoria vivente delle gesta e custode dei valori di una comunità. In origine dunque la funzione del poeta e quella del pedagogo facevano tutt’uno, così come capita ora nell’opera e nella professione di Sardisco, dove per così dire alla “conoscenza del poeta” è affidata la salvezza dell’io fragile della bambina autistica dall’ingorgo dei suoi impulsi e dal marasma delle sue sensazioni. La poesia continua dunque a portare le stigmate della sua missione originaria, nella misura in cui il processo narrativo e le pieghe del verso cospirano alla espressione di un ethos, inteso sia come carattere che come reciproco orientamento di parola e ascolto, esercizio di una “composizione di luogo”. Orörterung nei termini di Heidegger: nella parola tedesca si trova infatti il senso dell’orientamento come quello del convergere di diversi percorsi e tendenze in un punto critico, là dove essi si scontrano, manifestando un’incompatibilità da cui può scaturire l’incontrollata violenza orgiastica ma poi anche invece si incontrano nel cerimoniale della festa per la pietà e la gioia condivise. Das Ort, il luogo della poesia, è dunque anche il tempo giusto del convenire della parola e dell’azione, nella scelta di fondo tra l’amore e la guerra (temi poetici per eccellenza), per la creazione di un mondo e per la sua durata. E’ il punto denso in cui convergono i diversi rivoli di una tradizione, come a formare un grumo dolente in attesa di essere operato, ossia messo in opera dalla punta luccicante e affilata, lo stilo o stile del poeta, sacerdote e vittima, come una lama di chirurgo che lo ferisce e lo cura. Ogni narrazione che fonda una soggettività (individuale o collettiva) si genera infatti come un’azione segnata da molteplici svolte, attraverso la mediazione del dialogo, manifestandosi infine come quel filo del discorso che la prossima scelta minaccia sempre di recidere. Nella sospensione metrica di tale minaccia, che è la quintessenza della poesia, dove materialmente si coglie l’apertura al rischio del delirio, si inaugura ogni forma di appartenenza e di comprensione dell’Altro. Lo si fa proprio nella produzione e nella cura della parola agita, che è come una traduzione simultanea della passione in azione e una messa in forma della carne dolente del mondo, una frenesia trattenuta nella misura del verso.