Patrizia Dughero – inediti

DUGHEROPatrizia Dughero, di origine friulana da parte paterna, è nata a Trento nel 1960 e si è laureata in Arti visive all’ateneo di Bologna, dove tuttora risiede. È presente in numerose antologie, di racconti, di poesie e con testi di prosa poetica in cataloghi d’arte. Sei le sillogi poetiche pubblicate: Luci di Ljubljana (2010) e Le stanze del sale (2010); Canto di sonno in tre tempi (2011), Reaparecidas (2013); Filare i versi (2016); Canto del Sale (2016). Attualmente la sua attività si concentra su articoli e progetti editoriali. Da qualche anno svolge studi sul linguag­gio poetico dello haiku, culminati in articoli, progetti didattici e nella raccolta, Filare i versi /Presti verze, tradotta in sloveno da Jolka Mili?; sulle mitiche figure friulane, le agane, è recentemente apparso un articolo, “D’acque e terre nel bosco delle Agane” nella collettanea Sorgenti che sanno (Biblioteca dei Libri Perduti, 2016).  È stata capo redattrice della rivista “Le voci della Luna” e collabora tuttora con l’associazione per il Premio Giorgi. È responsabile editoriale di 24marzo Onlus, associazione attiva sui diritti umani, sul tema dei desaparecidos e la Rete per l’Identità. Le sue poesie sono tradotte in spagnolo e sloveno. Nel 2012 ha fondato con Simone Cuva la casa editrice qudulibri.

Patrizia Dughero
(inediti)

dughero 02
CICLO DELLE MEDUSE O DELLA SCOMPARSA

L ’oblio negato s’è fatto chiaro,
diventa rumore di memoria, smaniato linguaggio.

Erano arrivate, insieme, impossibile catalogarle,
ripercorrevano la scia, una nuotata
epocale. Sullo scoglio
al sicuro, lo sguardo riattaccava.
Una, poi l’altra, ancora e poi ancora
si trasportavano insieme, si spingevano
l’acqua, compressa, a turno o il mare
meglio una massa, a spostare
varcare premere avanti.
E quello sciacquio continuo interrompeva il silenzio
bianco: banchisa, voci irreali dall’insenatura lontana
alcuni piccoli pesci vaganti alla ricerca
di una voce lunare.

Ma è il loro turno
e sarò io a vegliare in trasparenza
nel mezzo il vostro buio movimento
mentre invischia l’incedere acqua e fuoco.

Ma c’è troppo silenzio là in fondo, dove
suono non può esserci,
nel profondo del mare, ferma e sospesa
c’è una ninna nanna, ed è vostra.
C’è un grande silenzio dove non c’è mai stato
suono. Ci basterebbe un urlo di risposta
un poco di tepore per la domanda d’ansia.
Il mare come un’enorme tomba
una lastra di ghiaccio e d’acciaio.
Li avete incontrati quei corpi senza nome?
E l’anima loro, dov’era dove
non c’è mai stato
suono, nessun vortice
solo incurante incedere e silenzio.

                             9 ottobre 2015, per “La mia casa è il fiume”
                             esposizione di Roberto Cantarutti allo Studio Faganel, Gorizia

DUGHERO 01
Morte del mostro

I

Era un drago-elettra, la macchia nel cielo
scintillante mostro stagliato nel cielo
prima che ne giungesse notizia, sul nostro sentiero
attirata dal senso di memoria intessuto d’estraneità;

dalla luce filtrata nella nebulosa sconfitta
che s’incendia trafitta dalla storia, nell’esperienza,
dal sole, dal tempo e ben altro: difficile
dire cosa fosse, meglio la peste,

una crepa segreta, subdola fessura
che lavora discreta sotto l’angoscia del volo.
Pentothal, torture, parole segrete, che a pronunciarle
provocano un gorgo e dei mostri,

tra dirupi e scogliere, torna Scilla a guardarlo
lampreda dall’enorme bocca, il tradimento
sordo, cresciuto piano,

silenzioso decollo
non più naiade, non più sirena,
non più numi e dei a filtrare il racconto.

Corpi spezzati, magro oceano oltre l’Atlantide
mare di mostri che risucchiano piano
dove il timone non si rompe non s’impenna,
devianza pendente, il corpo si gela

s’inabissa si spezza, scompare
da terra, né autunno né inverno
né frutti, né oggetti, né tumuli
né orazioni, né inviti e preghiere, né terriccio.

Una tradotta in circolo, un cerchio di madri
soltanto a gorgo concluso. La pelle,
di tanti, un vortice scuro, dei mostri,
e poi niente.

II
DUGHERO 03
E quel silenzio irreale, nella notte
accompagnava la luna,
il suo turno, la sua voce
voce lunare di mostro in volo
che sfilava tra i notturni scricchiolii.

E poi arriva il tempo della materia
solida materia che vegli su noi
per scalfire in volute nuove
quel che resta dal buio. E sono
cerchi e spirali scolpiti,

taumaturgico impegno
solleva le braccia sorreggendo corpi

senza maledire, tende invano l’orecchio
a incidere il nulla che attornia
i muri della pietra inerte.

Perché il nulla non si può dire. Questo è il punto.
Raccontare rende meno atroce
non meno inconcepibile. Qualcosa è scomparso
uno sfacelo. Vogliamo trovare parole
anche per questo

cosa pensa una vita con corpo quando crolla
in mare, si spezza senza nome. Diventa senza corpo.
Vogliamo cercare parole
anche per questo. Circonvoluzioni
gorghi impensabili eternati sulla dura sostanza

per continuare un pensiero incomprensibile.
Si tace, noi zittiamo come animali feriti
a morte, mentre ci si guarda in faccia
nella piena solitudine e Cariddi scompare
inghiottito dentro di noi.

                              2 aprile 2014, a Jorge Romeo, scultore dell’esilio,
                              per l’esposizione (catalogo) “Cariddi”

DUGHERO 04
QUESTO È UN VERO MOVIMENTO

I giornata

Si disse di un manipolo di persone tra poeti e artisti,
qualcuno lo può ancora raccontare, se crede; già si può
scrivere della bottega dove s’avverano trasformazioni.

Qualcuno ha visto bisturi e cazzuole, pennelli d’ogni misura
ordinati come i barattoli e le tele, accantonate dalla cartavana
ridipinta in bianconero, nella resa che accende la poetica stabilità.

Qualcuno ha deciso di non dire niente, godendo la serata come uno
spettacolo, mentre qualcuno imbraccia la propria arma, foss’anche
un cellulare spento, adattato a richiamare la memoria ai posteri

che forse saranno, mentre qualcuno vede già quel che è il ricordo
e vorrebbe decifrarlo, e lo fonde con quel muro crollato, all’angolo
della via che non riconosciamo più. Il falso movimento

porta pagine vuote, quelle di chi ci vuole bene e di chi
ce ne ha voluto. Non le accartocciamo, sostituite da tavole rosa
di legno buono, non ci permettono di cincischiare con la morte.


II giornata

Qualcuno decida di spargere una polvere più che cinerina, che sappia di fumo
più che di nebbia nella notte. Iniziamo dall’altalena, basterà un poco
di polvere per intervenire. I contorni delle figure di luce, incatenate,

chiedono al paesaggio di sopraggiungere, coi grigi che si conoscono
si staglierà nel sogno, un paesaggio lieve che liberi, posato con la grazia
di chi inforna il pane, dispensata la lievitazione come si conviene.

La delicatezza è la polverizzazione che accorre dopo i graffi dalle spatole,
a pulire, sempre pulire il senso, insieme alle grida garrule, che non ci
stupiscono più, ci vuol ben altro, quando il sussurro si trasforma in urlo e

risuona nella via. Dove andiamo pittore? Dove stanno andando le tue figure
divergendo dalla luce, non precipitate, ma accolte, attendono un movimento,
vero, che pure la nebbia diradi.

III giornata

Non scriveremo parole di barriere e varchi, che non vogliamo mostrare,
preferiamo correggere le piccole crepe mancanti della poesia,
dedicandoci a quella circense, che vive nel viaggio, ai bordi dei marciapiedi

nelle grandi città o dentro tende mongole, rotonde, un buco al centro
da cui a uscire è il fumo di pane e cipolle e niente nebbia da diradare
il sangue s’è rappreso, le bocche ammutolite già da tempo.

Il primo sguardo sul campo è un altro pianeta, oggi sul medesimo binario
è giorno e c’è il sole, le cure sono approssimative e qualsiasi cosa può essere
motivo di scherno e umiliazione. Alla fine gli umili si assomigliano tutti

ma le bocche non trattengono a lungo il grido e, adorabile, la polvere
sulle travi delle case come sulla fronte di quelli che non sanno tacere
e che lasciano affogare nel sangue il seme. I tempi bui non sono passati

ma non possiamo ancora morire, verbo imbiancato,
sotto la neve e il vento, lingua delle piaghe, e tu pittore
che sciogli la tua luce al freddo della nera pennellata

ingigantisci il tempo con spatole mirate e ora mi si fa chiaro,
anelo agli angeli come tu rendi visibili le scale che sormontano
quel grido muto della comprensione. Città boscosa, dice qualcuno

IV giornata

e non sopporta la rissa nella via grande, arteria ridondante,
bestia di un’unica arma, fumante, fedele al canto delle tue vie
felici d’esser tranquille o piaghe dichiarate, s’aprono sulla pace,

sui corpi di madri che non trovano più il loro viso di piombo,
sulla morte vergine martire, la parola un azzurro silenzio
poi arriverà la suprema nudità. La scala invisibile

diverrà d’oro, finalmente distesa, uno spazio lungo tra noi e dio,
aggrappato a un urlo, UAGG, si disse, cielo nero spoglia mortale,
dio nudo, ricordando che dietro il cielo azzurro c’è la falce,

ancora il grido rosso del vento, quando la vita sorride alle foglie
che cadono, all’ultima foglia, che è vero movimento, dunque danza
e preghiera, ancora una bella poesia, pallida che spiri ai piedi

dei nostri tempi, la nostra epoca vacilla, ancora una bella poesia pallida
senza fine, ché la sua fine divora, ancora un dio che agonizzando riconosca
la sua città, graffiata d’oro tossico, ancora un po’ di notte lasciata

                                                                                 al margine della ciglia
                                                                                   tra le colline bianche
                                                                       nel solco che lamenta il seme
                                                                           al giorno perso nel silenzio
                                                                                  nei fuochi dei bivacchi
                                                                           lungo il fiume dove il vento
                                                                              ha spento il nostro regno

                              9 dicembre 2016, a Roberto Cantarutti, pittore autentico,
                              da Miró in poi movimento vero


Patrizia Dughero, di origine friulana da parte paterna, è nata a Trento nel 1960 e si è laureata in Arti visive all’ateneo di Bologna, dove tuttora risiede. È presente in numerose antologie, di racconti, di poesie e con testi di prosa poetica in cataloghi d’arte. Sei le sillogi poetiche pubblicate: Luci di Ljubljana (2010) e Le stanze del sale (2010); Canto di sonno in tre tempi (2011), Reaparecidas (2013); Filare i versi (2016); Canto del Sale (2016). Attualmente la sua attività si concentra su articoli e progetti editoriali. Da qualche anno svolge studi sul linguag­gio poetico dello haiku, culminati in articoli, progetti didattici e nella raccolta, Filare i versi /Presti verze, tradotta in sloveno da Jolka Mili?; sulle mitiche figure friulane, le agane, è recentemente apparso un articolo, “D’acque e terre nel bosco delle Agane” nella collettanea Sorgenti che sanno (Biblioteca dei Libri Perduti, 2016).  È stata capo redattrice della rivista “Le voci della Luna” e collabora tuttora con l’associazione per il Premio Giorgi. È responsabile editoriale di 24marzo Onlus, associazione attiva sui diritti umani, sul tema dei desaparecidos e la Rete per l’Identità. Le sue poesie sono tradotte in spagnolo e sloveno. Nel 2012 ha fondato con Simone Cuva la casa editrice qudulibri.

Fotografia di proprietà dell’autrice