A cura di Antonio Fiori
Quello alla salvezza è un apprendistato che dura tutta la vita; ne dà prova e testimonianza Pasquale Vitagliano non solo in questa silloge ma in tutto il suo percorso di scrittura poetica.
Una poesia che qui certo volge all’introspezione ma sempre partendo dallo sguardo sul mondo, dalla sua vocazione etica e civile: Far sì che agendo/ Il dire e il fare/ Guardino dalla stessa sponda/ Smetterla così di fare cose/ Con le parole agire/ In tutto quello che accada.
Chiuso nella sua stanza, il poeta è assediato da dubbi, sospetta congiure, cerca di riordinare i pensieri. In un verso ci rivela che disteso sul letto mi tiene la mano l’assenza più attesa.
Incontriamo anche molti testi meta-poetici, apparentemente assertivi ma forse solo provocatori, vicini al realismo terminale: Le cose sono parole e gli oggetti parlano/ Senza bisogno di muoversi/ Perché adesso puoi toccare/ Ciò che dici.
L’apprendistato conosce tappe di assestamento, nelle quali si addensano insegnamenti e consigli (La luce non serve la speranza non smuove/ Alzati ascolta prova a spostarti cammina/ La luce non serve per salvarsi) e si chiude con la prima poesia intitolata (“Taranto per noi”).
Segue la sezione “Dopo la battaglia”, nella quale irrompe l’attualità: Non mi aspettavo una guerra/ Per cui non devo combattere/ Eppure sono in trincea/ Con un solo colpo in canna/ Così devo difendere la chiave/ Da passare al prigioniero.
Il libro si chiude con una bella lettera di Lino Angiuli, da poeta a poeta: “Poesia come arte dell’abbandono ed elemosina del senso, dunque; allestimento di una disposizione d’animo (e d’anima) che possa fare da apripista alla scaturigine di un quid che si intuisce esserci da qualche parte, e da cui ci si aspetta di essere visitati, senza ovviamente scansare le preziose istruzioni del buio.”
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C’è stato tolto tutto
Chi si azzarda più
A dipingere madonne
Ci hanno privato delle ninfe
Le nature morte sono morte davvero
Non più scandalo nemmeno
Un barattolo o un volto scomposto
Ci hanno lasciato infine i rifiuti
Al massimo da differenziare
Che arte puoi fare se non un’alchimia
Almeno per chi come a tutti gli umani
Spetta di camminare.
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In questa poesia non ci sono alberi
Animali o elementi naturali
Neppure parti del corpo e
Neanche oggetti di uso comune
Che pure sono quelli che preferisco usare
In questa poesia ci sono soltanto
settanta parole che senza aspettarsi premi
Cercano di scrivere appena
Ciò che la vita non riesce a dire
Quello che dalla vita avanza
Perché possa smaltirsi il dolore
Per dare un senso alla salvezza.
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Arride sulla trincea
La scia del tracciante
Irradia l’ultima notizia
La guerra privata è finita
Il bollettino quotidiano
Sulla battaglia continua
Irride la gloria alla buon’ora.
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Pasquale Vitagliano è nato a Lecce nel 1965, è poeta e critico letterario. Presente nell’Atlante dei poeti italiani contemporanei “Ossigeno nascente”, curato dall’Università di Bologna, è caporedattore della rivista letteraria Menabò, animatore del Litblog Lapoesiaelospirito, e collabora con la Gazzetta del Mezzogiorno. Tra le sue opere ricordiamo, in prosa: “Le voci del pretorio”, David and Matthaus (2017), “Sodoma”, Castelvecchi (2017); in poesia: “Del fare spietato”, Arcipelago Itaca (2019); in veste critica: “Icone e labirinti”, Terra d’ulivi (2020).
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