Poesia italiana all’estero: USA
Intervista a Paolo Valesio di Diego Bertelli e Alberto Comparini
(estratto dell’intervista pubblicata in Atelier 80, “Inguaribili sognatori” – info qui)
1. Quando è arrivato in America, negli Anni Settanta, qual era lo stato delle poesia italiana? […]
In realtà, io arrivai in America a metà degli Anni Sessanta e precisamente nell’anno dell’assassinio del presidente Kennedy. Le intersecazioni fra la macrostoria e e microstorie sono quasi sempre strane (è una delle ragioni per cui si continuano a scrivere romanzi): ho cominciato la mia esperienza statunitense quando il cosiddetto “sogno americano” stava finendo, e decisi di rientrare nell’università italiana alla fine del 1967, senza poter prevedere che quello era l’inizio dello sgretolamento del suddetto sistema universitario. Il mio definitivo rientro negli Stati Uniti, peraltro, avvenne all’inizio degli Anni Settanta (una volta scomparsa la possibilità di un reinserimento universitario italiano in quel periodo), dunque la vostra domanda resta valida. […]
4. Se volessimo tracciare una plausibile storia delle poesia italiana in America, quando si può iniziare a parlare di una presenza sufficientemente riconoscibile di “poeti italiani d’America”? […]
Lo studio della letteratura italo-americana è ormai istituzionalizzato in alcune sedi universitarie statunitensi e comincia a essere praticato anche nell’ambiente accademico italiano. Ma non si può ignorare che i recenti grandi flussi migratori dal Medio Oriente verso l’Europa hanno cambiato il senso stesso della parola “migrazione” ed è sorta tutta una letteratura, in Italia e altrove, di recenti immigrati che si esprimono in italiano o nelle lingue degli altri Paesi di cui sono diventati parte integrante – e anche su questo fenomeno esiste un’ampia letteratura di ricerca.
Tutto ciò è noto, ma sospetto che la questione che sto per porre non sia stata ancora molto studiata: qual è oggi la situazione dei poeti italiani espatriati negli Stati Uniti o in altri Paesi, in Europa o fuori d’Europa? (Ho sottolineato “espatriati” perché il termine “diaspora”, usato nell’antologia citata sopra, abbraccia sia costoro sia gli immigrati che sono entrati a far parte permanente dei vari Paesi). La mondializzazione contemporanea sembra intensificare gli elementi che fin dall’origine facevano parte dell’esperienza poetica dell’espatrio. I poeti espatriati, infatti, non possono appoggiarsi a un’epica migratoria; e sono (adesso) privi di inquadramenti, statunitensi o italiani, relativamente solidi come potevano essere gli Usa e l’Italia negli Anni Sessanta di, per esempio, Barolini e sono esposti a una turbolenza etnico-politica maggiore, non solo in Italia ma anche negli Stati Uniti (dove si è riacceso il problema razziale), e non hanno possibilità di essere accolti in un loro ambiente di studi universitari né in Usa né in Italia. Essi, dunque, non possono che diventare ancor più decisamente quello che già erano: interstiziali e mobili, dentro un’esperienza in cui l’espatrio può da un momento all’altro trasformarsi in rimpatrio e viceversa.
(l’intervista integrale è leggibile nel nr. 80 della rivista Atelier – info qui )