Nouri Al Jarrah, Una barca per Lesbo: epica mito poesia e mediterraneo
Nouri Al Jarrah, attualmente residente a Londra, è uno dei maggiori poeti siriani, nato a Damasco nel 1956, e ha pubblicato Una barca per Lesbo per la casa editrice l’Arcolaio con traduzione e prefazione di Gassid Mohammed. In questo intervento si approfondirà particolarmente la modalità intertestuale che il poeta utilizza per amalgamare luoghi letterari di culture differenti tra europa ed medio-oriente. In seconda battuta, mediante un approccio eco-critico, si cercherà di dimostrare come le rielaborazioni topiche di Al Jarrah non siano meri espedienti letterari, ma funzionali a dare una rappresentazione mito-poetica della diaspora siriana: pertanto letteratura e storia entrano in contatto profondo grazie alla vicenda dei profughi siriani.
I. Le frasche di Sham: il giardino perduto
Come nelle migliori cosmogonie antiche, anche Una barca per Lesbo si apre con una genesi: non una creazione del mondo, ma tratta la nascita dei siriani attraverso una rielaborazione ironica della nascita di Venere che viene accostata sia al mito di Banat Na’sh (leggenda della creazione dell’Orsa Maggiore) che al naufragio siriano. Ciò che quindi viene messo in parallelo è l’accostamento ironico tra la nascita e la morte: infatti la leggenda araba qui citata racconta che le stelle dell’orsa maggiore siano in realtà le sette figlie di un uomo assassinato, le quali decidono di inseguire l’assassino portando la bara del padre. Allo stesso tempo questo episodio è legato al fatto che i siriani, una volta negato l’accesso alle isole greche, sono stati abbandonati in mare. L’evento storico della sofferenza di questo popolo aiuta ad intrecciare ironicamente il materiale mitologico: in tal modo si anticipa l’equivalenza tra una patria perduta e un eden negato.
«O siriani sofferenti, siriani graziosi, fratelli siriani dalla morte fuggiti, voi non arrivate con le barche, ma nascete sulle spiagge… con la schiuma.
Oro puro e sperduto siete, oro fuso ed emanazione arida. Da un abisso a un abisso nel fianco del Mare Nostrum, con la stella marina e la sorella perduta seppia, le onde vi gettano sotto la luce di Banat Na’sh.»[1]
Questa diade tematica viene sviluppata più chiaramente nella poesia successiva e in quella a pagina 22.
«Come le sirene nascono, così nascono le graziose siriane,
sotto una luce tremante
e con le palme dei loro piedi teneri e lesionati, sassi e sabbia
grigia calpestano
nell’isola di Lesbo…
Scendete dalle frasche di Sham
alle rocce del dolore.»[2]
Se scendere dalle frasche di Sham (nome antico della Siria) equivale ad una discesa nel dolore, allora questo giardino perduto non potrà che essere rievocato unicamente nei ricordi e nell’immaginazione. Infatti, nella cultura letteraria araba, coranica e non, le rappresentazioni del giardino edenico vengono spesso assimilate a quelle delle oasi nel deserto. Di conseguenza nelle descrizioni si pone enfasi sull’ombra, sulla fruttificazione perenne degli alberi del giardino divino. In questo senso la poesia a pagina 22, il cui imperativo ‘venite’ e i fiori di melo citati potrebbero tradire la rielaborazione testuale di Invito all’Erano di Saffo, instaura un parallelismo tra l’eden perduto (la patria) e la discesa nella tragedia e nel dolore rappresentata da Lesbo.
«[…] nei vostri occhi le sabbie delle rive splendono e l’oriente ondeggiante nel reame dei vostri visi è spighe d’oro. Alzatevi come nell’immaginazione delle vostre guance morbide, alti monti si sono innalzati; voi ondeggiate nella mia immaginazione come i pioppi ondeggiavano nei venti dei vostri giorni, e i fiori di melo che svolazzavano al vostro passaggio. Venite al buio di Lesbo o siriani usciti dalla tavola rotta dell’alfabeto.
*
Scendete e siate il sangue della luce e l’alfabeto della lingua.»[3]
II. La diaspora siriana: una topografia letteraria e storica
Come mostrato precedentemente, Una Barca per Lesbo è una raccolta di poesie basata principalmente sulla capacità intertestuale del poeta di legare tra loro alcuni luoghi letterari aventi per minimo comune denominatore l’esilio o la diaspora e questi vengono reinterpretati attraverso dell’esperienza del popolo siriano. In molti testi, come si vedrà, l’autore richiama direttamente Virgilio, Dante e Ibn Hamdìs.
«o fratelli siriani, spintonati dalle onde, siriani uccisi sulle
spiagge, agitati e desiderosi sulle coste bui con visi splendidi,
qui, a Lesbo che Troia sempre fece piangere…
***
Venite… perché io possa baciare le vostre gote fiorite d’angoscia»
Il proemio dell’Eneide riecheggia sia nella tematica diasporica sia nella costruzione, la quale, seppur non del tutto speculare, condivide alcuni punti di contatto a livello lessicale (spintonato ricorda ‘iactatus’ virgiliano) e sintattico (tanto che, tramite un iperbato, l’autore cerca di mimare la distribuzione dei costituenti delle frasi latine). La terra promessa tuttavia non è più l’Italia, ma la controversa Lesbo: terra di dolore e sofferenza. Successivamente gli eventi mutano a sfavore dei siriani stessi che annegano prima di poter raggiungere l’isola profetizzata.
«Vi accalcate sulle barche, il mare vi ingoia nei pressi di Lesbo, e io muoio in Sicilia fuggendo dalla mia casa. Non credete a Poseidone, e nemmeno alla nave di Ulisse. Non credete alle lettere, non credete alle parole. Nulla è rimasto di Cadmo che con la sorella fuggiva, da Tiro in Fiamme, se non le rovine della barca.»[4]
Qui attraverso i miti di Ulisse e Cadmo, i quali sono gli esuli per eccellenza della tradizione greca, Al Jarrah, attraverso la rielaborazione intertestuale, pone un parallelismo tra mito e la migrazione sua e dei suoi connazionali: se ambedue gli eroi, in modi diversi, sono riusciti a tornare a casa o a stabilirsi altrove al termine del loro esulare, ai Siriani la possibilità di un pacifico rimpatrio o di una salvezza in terra estera è stata negata.
Lesbo è anche uno dei luoghi maggiormente interessati dalle traiettorie dei flussi migratori tra il 2014/15 e oltre, pertanto quella descritta dall’autore è una topografia a un tempo mitico-letteraria e storica. Questa tesi è corroborata sia dalla cronaca del periodo relativa al tema[5], sia dai dati statistici forniti dalla mappa metrocosm[6] di Max Galka, professore di data wrangling all’università della Pensylvania. Da queste fonti emerge come la destinazione principale di chi fuggiva dalla Siria fosse inizialmente la Turchia e solo successivamente dalla Turchia alle isole greche: partendo dalle spiagge dell’Egeo, pertanto, le tratte degli esuli si sono estese alle isole greche (Lesbo, Cuma, Samo e Cos).
III. Separazione dalla Siria e il deserto: elementi di contatto tra Jarrah, Ibn Hamdis e Dante
«Terza sonata
(canto del profugo)
Non sono uscito da Damasco
per perdere la strada per Damasco.
Non ho mandato il mio cavallo – con esso una nuvola-
in Andalusia per risiedere qui A Konya come un orfano
senza viso ne nome.
Alzati o Rumi passeggia con me nei giardini del sole
alzati e scendi con me alla Sham.
il sole nel calice è il grido dello straniero
la strada per la Sham è seminata d’uva e amici.
tanta gente presso le porte e gli archi in Rovina
una generazione che i terremoti stermina
i loro piedi nudi insanguinano le mappe
e rendono squallido il tempo.
***
Ieri ho lasciato le ombre vagare: tre i Bevitori,
sono uscito con me il minareto della sposa
Tabriz era un bel paesino nella Sham.
Non sono uscito da Damasco per morire, straniero,
sulla strada per Damasco.»[7]
In questa poesia troviamo un primo contatto tra la poetica dei due autori. Ambedue trattanto la descrizione delle rovine di una paese violato e la separazione dalla terra materna: rispettivamente la Sicilia per Hamdis e Damasco Jarrah. Come mostra l’anafora che spartisce apertura e chiusura della poesia riportata – tra i vv. 1, 2 e 17, 1- a Damasco si può ritornare unicamente nel ricordo. L’innovazione nei vv. 6, 13 che compie Al Jarrah è la sovrapposizione tra ricordo ed evento reale, tra passato e presente, tra simbologia coranico-sufi e realtà. Nel peota siciliano, invece, senso del distacco e rievocazione paradisiaca della terra materna sono piani spesso nettamente separati.
I temi di rovina e patria violata in ambedue gli autori confluiscono talvolta in lamentationes. Voce (Addio al nord roccaforti in in Fiamme) – poesia ascrivibile al genere sovracitato – unisce la malinconia dell’esule e la condanna dell’invasore a personaggi topici che popolano spesso le lamentationes di Hamdìs come: le donne violate, i soldati invasori, le roccaforti/città in fiamme e, in senso lato, i paesaggi deturpati dal conflitto armato.
«Voce
Addio Al Nord roccaforti in Fiamme
raccolti lasciati agli animali selvaggi
villaggi dietro le colline lasciati ai vagabondi
sangue di bestiame sparso lungo la costa
per cedere il passo al militare con la spada.
Ahimé per Siria perduta come un canto
strappato da un soffio di vento.
Ahimè per i suoi figli nelle loro chiacchiere notturne
per le fanciulle assetate e per il dolore della voce.
Ah per il mio inno
che non ha fine.»[8]
Infine per quanto riguarda le suggestioni dantesche esse emergono chiaramente nella poesia Voce:
«Viaggiando nel deserto
il mio obbiettivo
dopo la perdizione
era raggiungere la retta via
e ritornare da un’eternità ingannevole
a un tempo in cui non scompare frutto,
né l’oro si logora.»[9]
Leggendo il testo è necessario tenere conto della funzione del deserto nella topica tradizionale arabo-persiana. Infatti «l’uomo di Dio è, in diroccate rovine, tesoro»: è metafora frequentissima nella poesia tradizionale – le rovine, i luoghi deserti, racchiudono spesso tesori nascosti-.»[10] Saldando la selva dantesca al topos tradizionale del deserto, Al Jarrah mette in discussione i presupposti sia dell’uno che dell’altro. L’obbiettivo non è individuare un percorso che porti ad un’eternità fuori dalla storia, ma il ritorno ad una sorta di età dell’oro; obbiettivo messo in dubbio in questa lirica: il gioiello nascosto nel deserto sembra quindi più una chimera che reale possibilità.
IV. Poesia e mediterraneo: breve resoconto di un dialogo ravennate
Il lettore attento potrebbe domandarsi, anche dopo aver preso visione delle sole poesie proposte, quale sia la destinazione di Jarrah. In questi versi vi è la consapevolezza di essere un eterno esule e dunque vi è unicamente il rimpianto della terra materna? In realtà, parlando con l’autore in occasione della lettura di alcune poesie di questa silloge all’interno del Dantedì tenutosi a Ravenna nel 2019, egli crede che la casa/patria non debba per forza coincidere in un confine domestico o territoriale, ma possa essere astrazione culturale. Relativamente al mediterraneo, infatti, egli stesso disse: «il mediterraneo è uno e la cultura non ha mai avuto barriere, ma da sempre si è andata mescolando. Dunque la questione non è ritornare a Damasco, ma riscoprire cos’è rimasto di quella terra altrove.» Alla luce di questa dichiarazione l’intertestualità di Al Jarrah potrebbe essere interpretata come il tentativo di trovare un’unitarietà culturale basata sull’intreccio di epica, lirica e storia. È questo l’elemento più importante di questo libro, che investe la poesia di una rinnovata funzione culturale particolarmente preziosa in questi tempi d’intolleranza politica e povertà poetica.
[1] Nouri Al Jarrah, Una barca per Lesbo, Arcolaio, Forlì 2018 p. 19
[2] Ivi p. 20
[3] Ivi p. 22
[4] Ivi. p. 24
[5] Cfr. https://www.ilpost.it/2019/11/02/atlante-rotte-migratorie-europa/#steps_4
[6] Cfr. http://metrocosm.com/global-immigration-map/
[7] Ivi p. 109
[8] Ivi p. 83
[9] Ivi. p. 35
[10] Cfr Rûmî Gialal al-Din, Bausani Alessandro (a cura di), Poesie Mistiche, Rizzoli, Milano p. 47
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Nouri Al Jarrah, Uno dei maggiori poeti e scrittori siriani, nato a Damasco nel 1956, vive attualmente a Londra. Lasciò la Siria per il Libano, lavorò nel giornalismo letterario dagli inizi degli anni ottanta, e fu caporedattore della rivista “Fikr” (Pensiero). Da Beirut partì per Cipro, lì visse due anni, poi si diresse a Londra nel 1986, dove vive tutt’ora. Lavorò presso la rivista “Hawadeth” (Eventi), e il giornale “Al Haiat” (La Vita). Partecipò alla fondazione della rivista “Al Nakid” (Il critico), e ne fu caporedattore tra il 1988 e il 1993. Tra il 1993 e il 1995 fondò e diresse la rivista “al Katiba” (La scrittrice), la prima rivista mensile dedicata alle avventure delle donne nella scrittura. Istituì nel 1994 il “Premio della scrittrice del romanzo”, il primo premio letterario per romanzi scritti da donne. Infine, fondò nel 1999, tra Londra e Cipro, la rivista “al Qasida” (La Strofa), per nuovi orizzonti poetici. Nouri Al-Jarrah svolge, attualmente, diverse attività culturali. Dirige tra Londra e gli Emirati Arabi “Il centro arabo della letteratura di viaggio” e “Il convegno dei viaggiatori arabi e musulmani: scoprire se stessi e l’altro” che si svolge annualmente in una delle capitali orientali; inoltre, è membro della giuria del “Premio Ibn Battuta per la letteratura di viaggio”. Ha pubblicato dieci raccolte di poesie, due libri di letteratura per l’infanzia, e ha curato decine di libri, soprattutto nell’ambito della letteratura di viaggio. Tra le sue raccolte di poesie: “Al Sabi” (Il fanciullo) Beirut 1982, “Mujarat al saut” (Assecondare la voce) Londra 1988, “Nashid saut” (Canto di una voce) Colonia 1990, “Ka’s sauda’” (Calice nero) Londra 1992, “Hada’k Hamlet” (I giardini di Amleto) Beirut 2003, “Tarik Dimashq” e “Al Hadiqa al farisyya” (“La strada di Damasco” e “Il giardino persiano”) due raccolto in un volume, 2004. “Una barca per Lesbo” (L’Arcolaio editore, 2018).
Luca Cenacchi principalmente si occupa di critica letteraria con particolare interesse verso la poesia queer italiana. ha collaborato con varie riviste online e cartacee tra cui: Argoonline, Poetarum Silva, Atelier (cartaceo),Niederngasse, FaraPoesia e altri. Ha collaborato con diverse case editrici, per cui ha firmato prefazioni e interventi,tra cui: Oedipus, Atelier, Fara editore e Tempo al Libro. è stato giurato presso vari concorsi letterari tra cui Bologna in Lettere (Dislivelli 2018). Attualmente collabora con il collettivo forlivese Candischi con cui organizza presentazioni di poesia.
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