Nella giornata mondiale della poesia Il libro tibetano dei morti è un libro necessario.
Commento a cura di Clery Celeste
Oggi sarebbe l’equinozio di primavera e la giornata mondiale della poesia. Fatico a festeggiare entrambe le cose. In questo momento così faticoso resta da chiedersi quale parola può resistere. La poesia è in grado di resistere? Sono in grado i poeti di schierarsi contro la tragedia e il dolore, per farci approdare a una comune bellezza oppure sono tutti impegnati, anche in questi giorni, a scrivere e mettere la firma, a sventolare un proprio marchio?
Mi sono chiesta quali parole potessero essere davvero necessarie ora. Sono andata a riaprire Il libro tibetano dei morti (a cura di Giuseppe Tucci, pubblica SE). Un libro antichissimo, difficile da leggere senza alcuna preparazione. Ecco perché c’è una lunga introduzione che mette il lettore in una visione della morte completamente ribaltata da quella occidentale. Siamo abituati a pensare alla morte come a un salto, un passaggio nel buio da cui non si può tornare. Bisogna salvarsi in vita, in vita chiedere perdono. Dopo c’è poco da fare, ci aspetta il buio, o se siamo stati dei santi, la luce. Il libro tibetano dei morti non è un libro di poesie, è un libro di istruzioni, un trattato sulla liberazione. Andrebbe letto almeno una volta nella vita affinché quelle parole, al momento del bisogno, possano tornarci alla memoria e salvarci. Queste parole sono necessarie, sono quelle che devono resistere perché chi sta morendo in queste ore nelle stanze di terapia intensiva è solo, semplicemente chi muore in questi giorni non ha tempo per niente, muore solo. La coscienza del morto viene lasciata senza parole, senza un tocco. Ci sta venendo tolto uno dei primi simboli di civiltà che è la sepoltura, la giusta cura dei morti, l’ultimo invisibile dialogo tra morti e vivi.
Il libro tibetano dei morti è una preghiera continua, quando la parola sfiora il sacro allora è anche poesia, allora è necessaria. Organizzato in tre libri spiega tutte le fasi della morte. E non è un passaggio veloce. Tutt’altro. “Il respiro che esce fuori si interrompe, tutte le cose sono vuote, nude come lo spazio; c’è soltanto un’intelligenza immacolata, vuoto-luce che non ha né circonferenza né centro; allora tu devi quella luce riconoscere. In essa stessa entra da te stesso. Io pure allora lo conoscerò.” Viene descritto così il primissimo stato dell’esistenza intermedia al momento della morte. Ma questa fase dove la coscienza manca e ci si deve affidare alla luce può durare tre giorni, la coscienza del morto può resistere, può non riuscire ad affidarsi. Ecco perché ci vuole qualcuno che accanto al morto reciti queste parole, gli ricordi dove guardare per entrare nell’esistenza intermedia.
Senza nessuno a spiegargli che succede “il morto vede i congiunti piangere e gemere, mettere da parte la sua porzione di cibo, togliere a lui i vestiti, spazzare il luogo dove giaceva; ma essi qui non lo vedono. Egli sente che quelli lo chiamano; ma quando lui chiama essi non sentono.” Senza istruzioni, senza la parola resta solo il terrore, la paura e la disperazione. Senza la parola sprofondiamo nell’incoscienza, ritorniamo animali. Ecco perché chiamare le cose col loro nome è importante, ecco perché il compito della poesia dovrebbe essere questo. Chiamare il morto per nome, ricordargli che “è arrivata quella che si chiama morte; che è la dipartita da questo mondo e non capita soltanto a te, ma viene a tutti; non restare attaccato, desideroso e voglioso di questa vita.”
La stessa cosa vale anche per i vivi. Il poeta ha il dovere sacro di dare una parola che possa resistere, che esca dall’individualismo, che si faccia dono. Il poeta ora ha il dovere di ricordarci di essere umani, di restare uniti. Non illudiamoci perché il nome non resta, la morte arriva per tutti, semmai resta l’opera se il tempo decide che è necessaria all’uomo. Tutto il resto verrà spazzato via.
Vi lascio questa poesia necessaria, questi versi di Christian Tito dovrebbero assalirci di notte, svegliarci dal buio.
Meglio saperla
tutta la forza,
tutta la fragilità
se vuoi che si plasmi in forma d’uomo il tuo viso.
Allora nella notte non perderti d’animo,
nel chiarore resta sempre vigile.
C’è un fuoco da portare,
da passarci di mano,
da restituire alla terra.