Nel suo nome: intervista a Victor Attilio Campagna (a cura di Eleonora Rimolo)

9788868814328 325x500Nel suo nome: intervista a Victor Attilio Campagna (a cura di Eleonora Rimolo)

1. Nominare le cose: quanto è importante per te? Dare un nome alle cose aiuta a coglierne l’essenza?

Dare nome alle cose è un modo per fare sì che esse non ci sfuggano. Tante volte ho pensato a come sia curioso che noi passiamo il tempo a denominare cose che sono davanti a noi, che stanno lì con la loro essenza di oggetto, impassibili, incoscienti dei nomi diamo loro; sono e restano esseri a prescindere da noi, ma il dirle è come se ci desse l’illusione di averne un controllo (a dirla tutta precario). Il problema del nominare sorge quando siamo noi a creare essenze: lì il nome diventa qualcosa di complesso, soprattutto nell’epoca della tecnica. Tanti ne hanno scritto, ma non mi ci addentro: è un tema complesso, quello della tecnica in sé; piuttosto mi interessa la tecnica in poesia, come rappresentarla. La grossa sfida nel percorso che mi sto costruendo è riuscire a dire con la lingua poetica l’età della tecnologia. È una sfida anche perché la poesia viene considerata da moltissimi un genere rinchiuso in una torre eburnea, lontano dal reale, incluso in uno spazio-tempo arcaico. Un altro aspetto è questo: i poeti si muovono su nomi assoluti secondo Baricco, ossia la parola che scelgono è giusta, corretta, imprescindibile, è la parola perfetta. A mio modesto parere sbaglia: credo invece che la poesia per il poeta sia un errore, ossia un vagare, una ricerca costante; penso a questo proposito a Camillo Sbarbaro, che riconobbe come unico libro poetico di valore Pianissimo: ci lavorò incessantemente, fino all’ultima edizione del 1960. Era l’unico testo per cui volesse essere ricordato e per questo lo rimaneggiava di continuo: avesse vissuto qualche anno in più l’avrebbe modificato ancora e ancora. È un esempio estremo, ma credo che ogni libro poetico, nel suo nominare, non raccolga mai l’essenza in chi scrive: la raccoglie solo chi legge. Il lettore ha quindi un compito importante: correggere questo errore che è la poesia.

2. Dio si può nominare?

Dio non è un nome, non può essere nominato: Dio è un suono. Nella religione Ebraica questo aspetto è molto significativo: Dio è un suono di per sé indicibile, anche a livello prosodico; è un nome scrivibile ma non pronunciabile. Penso a Lilith, che fu condannata alla dannazione eterna perché osò nominare tutti i 70 nomi di Dio. Diciamo che su questo punto la religione greco-latina appare un po’ più superficiale. Gli dei “falsi e bugiardi”, come li definivano i cristiani, erano vilipesi costantemente perché ritenuti troppo umanizzati. Ci sono numerosi libri che possono illuminare sulla condizione dell’essere dio secondo gli antichi (penso a Detienne, Calame, Otto, per citarne alcuni). Ma un libro in particolare mi ha colpito, scritto a quattro mani da Kerényi e Jung: Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia. In questo libro i due autori analizzano la formazione del mito in diverse culture e notano che il Kyros e la Kore, il Fanciullo e la Fanciulla, figure semi divine gettate nel mondo, sono protagonisti costanti nelle mitologie di varie latitudini del mondo di allora: è un tema molto affascinante, uno studio che permette di comprendere come la mitologia permei la natura delle nostri origini. Non entro nel dettaglio, però credo che la differenza fondamentale tra la religione cattolica e il paganesimo stia nell’incontro con Dio. Non tanto nei nomi quindi, ma nel modo in cui si palesa. Il Dio cattolico è composto da una sorta di psyche, da intendersi come aria, ventata, una figura incoerente con la corporeità, assoluta e impossibile allo stesso tempo; il Dio pagano invece è un Dio che scende in terra, ha una fisicità preponderante, spesso è un fanciullo, come il Dioniso delle Baccanti, e la sua venuta non richiama osanna, ma disgrazia e distruzione, infatti, il pagano con i sacrifici voleva tenere il Dio lontano. Quindi in sintesi Dio non si può nominare: è un suono, un aspetto, un’identità… è la rappresentazione di qualcosa che l’uomo non riesce a dire, per tornare al Dio come suono. Oppure una luce, un’illuminazione, penso al significato primario di Diƒos, ossia luce. La connessione con la poesia è forte, perché anche la poesia soffre di questa innominabilità. La poesia non è semplicemente andare a capo, si sa, ma se ci si chiede che cosa sia, in fondo, succede che ci si ritrova come nella definizione di Sant’Agostino sul tempo: io so che cosa è il tempo, ma quando me lo chiedono non so spiegarlo. In questo senso credo non sia un caso che il poeta fosse considerato un essere sacro, vicino agli dei: condivide col dio l’innominabilità.

3. Esattezza o indeterminatezza: da che parte sta la tua poesia?

La mia poesia è in assoluto indeterminata. Perché, banalmente, non ha un termine: per riprendere quanto detto prima, la poesia è per me un percorso individuale e collettivo, dato che faccio leggere i miei testi, mi confronto su di essi e con essi. Quindi Nel suo nome è un libro che prima di tutto vuole essere un percorso verso un’identità. Tant’è che il Nome non viene mai pronunciato, viene usato un semplice dio, con la d minuscola, perché ancora non ha un’identità, una reità: non è nominabile, appunto. Il mio primo libro è una premessa a un nome che verrà e, per quanto sia centrale la figura del dio, in realtà è ancor più determinante la figura dell’uomo e della sua quotidianità: l’unica parte di esattezza forse sta nei luoghi, nei volti, nella coerenza del testo, che non vuole essere in nulla lirico, ma cerca di essere il più possibile poematico. La finalità è raccontare la storia di quest’uomo che guarda il mondo, con una sorta di registratore visivo e costruisce, fissa immagini, le distorce per i bias che caratterizzano la nostra mente e a un certo punto incrocia dio, pensa che tutto sia finito, che sia la catastrofe.

4. Qual è il modello che ha influito di più sulla composizione del tuo ultimo libro?

Penso ci siano tanti modelli: le letture che ho fatto sono tante e insufficienti al contempo. Tutte necessarie, tutte formative. Montale credo che sia da riconoscere come asse fondante della nostra contemporaneità, è imprescindibile. Altri poeti per me fondamentali sono sicuramente Pasolini, Zanzotto, Bonnefoy, Sereni, Caproni, Cattaneo… Ma su tutti credo che i modelli principi cui ho teso sono Eliot per la sua capacità di reinterpretare in maniera geniale il poema, e Paul Celan, per la sua capacità di dire l’indicibile con un’eleganza e una determinatezza impressionanti. È incredibile come Celan riesca, senza dire nulla di particolarmente significativo all’apparenza, a farti lo stesso sentire qualcosa di potente, di grande, di maestoso in quelle poche parole.

5. Qual è il senso della scrittura poetica per te – e per la tua generazione?

Parlo prima di tutto per me. La scrittura, l’ho già detto, è un errore, quindi un costante lavorìo, necessario a costruire un testo. Ma soprattutto ci dev’essere una continuità, una sorta di legame che unisce i diversi componimenti. La mia non vuole essere una raccolta, ma un libro, un’opera. Credo che questo punto sia fondamentale: l’unità concettuale dei libri di poesia si è persa nel pubblico, un po’ per via dell’insegnamento antologico che si fa a scuola, un po’ perché molti pensano che i libri di poesia siano delle raccolte, appunto, delle collettanee di testi slegati tra loro. Questo aspetto penso sia fondamentale da smentire: i libri di poesia vanno letti dall’inizio alla fine, come succede per un romanzo (fatto salvo Rayuela di Cortàzar).
Un altro punto importante è quello dell’autobiografia in poesia. Ecco, io nelle poesie che scrivo cerco di fare in modo che i miei ricordi, le mie esperienze, appartengano a qualcun altro e in lui vengano quasi totalmente distorti, reinterpretati, rivisti. È un modo per vedere il mondo da un altro punto di vista, ma soprattutto è un modo per cercare di essere votati a un lettore, a qualcuno che possa guardare coi miei occhi qualcosa. Per questo evito di parlare propriamente di me: nel mio libro non compaio, non ci sono. Una volta che le parole si imprimono sulla tastiera del mio PC smettono di essere miei pensieri: è come se si trasferissero a qualcun altro, che si impossessa di essi e dà loro chiarezza. Ci tengo a sottolinearlo, perché spesso si pensa alla poesia come a una sorta di intima confessione, quando invece questo è solo un aspetto tra i tanti di una materia complessa quale è la poesia. Tant’è che vedo, purtroppo o per fortuna, circolare tanti testi che, in realtà, non solo altro che pensieri messi in forma di versi. E credo che quando si commentano questi testi negativamente, nasca nello scritto un’offesa non per permalosità, ma perché ci si senti defraudati della propria emotività. E non fa piacere a nessuno che succeda.
Per la mia generazione non mi sento di parlare: credo ci siano tante voci belle, interessanti, piacevoli, e che la poesia sia più fervente che mai. Devo dire che di questo ne sono felice. Infatti, ritengo che non sia morta la poesia, come spesso si sente dire. Il problema è che è morto il suo pubblico. Per cui l’unica cosa che mi sento di dire è un invito: dovremmo, noi che facciamo poesia, darci senso, nella letteralità del termine. Dobbiamo cercare di essere sentiti da chi ci legge, è necessario. Bisogna ricostruire un’alleanza col lettore, che abbiamo perso per tante ragioni, su tutte il modo che la scuola ha di insegnare la poesia – non penso che sia un caso che si studi poesia sin dalle elementari e che i pochi lettori forti sopravvissuti smettano quasi tutti di botto di leggere poesia, fatto salvo qualche disgraziato tipo noi due, che le scriviamo pure per giunta.
Esiste un forte problema col pubblico. Sarebbe utile risolverlo. A poco a poco, ma almeno provarci.

***

Sono questi anni a balenarmi in fronte,
aspettative: essere, non essere,
fare non fare. Sono queste note di vita
che mi spettano, ritratti immensi
di una scorta indecente.
L’infinito non è altro che un gioco al massacro,
dove vincono le forze del suono,
appena appena frazionate e disposte
su un bancone di frutti e ferraglia.
No, non c’è più vita tra questi vermi incoerenti.
Pensa a quel barbone: guardava
di fronte a sé il vuoto, le mani poggiate
sulle ginocchia, e stupiva la morte
che gli stava accanto e gli indicava un parco giochi.
Quell’uomo sorrideva.
Cosa sono queste malelingue?
Chiedeva un chirurgo. Io non lo so. Forse loro, ma chissà.
-spallucce-
Esistono poi le malelingue? Chi siamo?
Guardate, rotolano carta igienica,
bracciali, corde! Il baccanale è finito,
è finito, ve l’ho appena detto, è finito.
Chi sei tu? Io sono il Messiah.
E Dio? Dio mi ha rigenerato.
O cazzo. Già.

Nota biografica

Victor Attilio Campagna (22.06.1989). Consegue la maturità presso il Liceo Classico A. Manzoni di Milano. Ad ora è laureando in Medicina e Chirurgia nell’Università degli Studi di Milano.
Vince il primo premio al concorso regionale Marina Incerti nel 2008; nel 2015 rientra nella terna dei finalisti nella sezione Opere Inedite del premio Cetonaverde con la raccolta “Nel suo nome”. Con quest’ultima opera esordisce nel 2019 con la casa editrice Ensemble. Suoi testi sono stati pubblicati su La Repubblica – Milano, Inverso, Atelier, Poetarumsilva e Yawp.
Collabora come redattore nella rivista “La Tigre di Carta”, dove gestisce e cura la sezione Poesia del volume cartaceo e del relativo sito, nonché la rubrica “Lo Spiantato”.