© Fotografia di Nicola Malaguti

Nazim Comunale – Inediti

Nazim Comunale è nato a Guastalla (Reggio Emilia) nel 1975. Docente di scuola secondaria, giornalista musicale per Il Manifesto, Blow Up, Il Giornale della Musica. Sue poesie sono apparse sulle riviste Dea Cagna, Versante Ripido e on line su Interno Poesia, Diario di passo, Ipoet, Poetarum Silva. Suoi testi sono stati tradotti in Venezuela e negli Usa. Ha pubblicato Aguaplano (autoproduzione, 2015), Lei Oceano (Terra d’Ulivi, Lecce, 2017), Chiamala febbre (Edizioni San Lorenzo, Reggio Emilia, 2020) e Tu, ira (Il Convivio Editore, Castiglione di Sicilia, 2021), opera vincitrice del Premio Pietro Carrera 2021. Presente nella collettive Non ancora silenzio (NMZ edizioni, Ravenna, 2019) ed in Emilia Romagna (Bertoni Editore, Perugia, 2020). Ha avuto la menzione speciale nel 2019 al premio Raffaele Crovi.

 

*        *        *

 

Poesia, salirai a galla
quando salirai a galla.
Allora smetterò
di addormentarmi vestito
di gridare buio alle tasche
di cucire ogni filo di vento.
Tra le maschere e gli appunti
qualcuno qualcosa avrà capito
il cielo tacerá
un minuscolo, un possibile.
Venerdì, le nove di sera.
A Cesena forse già piove.
A noi la conta di chi resta
l’armata dei danni, sintomi, inverno.
Nove giorni fa sei morta.
Un bimbo ride e rincorre una palla.
Dimenticate le formule
muoveranno la ruggine:
oro, stagione non mia
amore, canzone, eresia.
Sali a galla, spariscimi:
portami via.

 

*

 

Voglio l’indirizzo di Dio
il numero civico della morte
il monolocale arredato male dall’orfano dell’Epos
le sedie sfondate dalle bestemmie, dall’attesa
il nitore metafisico di un western americano:
la polvere esatta
un bicchiere scheggiato
e quel poco di acqua
che non basterà alla nostra sete.
Ho visto Ulisse all’Eurospin
sulla via Emilia
come una puttana da manuale
gonfio e vestito di stracci.
Cercava la sua Itaca
nell’Oceano Ipermercato
dei Grigi Sabati Occidentali
mentre la sua faccia scoloriva
nella pozzanghera
mentre l’anima affogava
nella vertigine e nei manuali in forma di nuvola.
Lontano come una bambola chimica
come una metafora usata
come un granchio
l’amore fuggiva ancora in un buco nella sabbia
figlio settimino della resa
avido di marea, di retorica
e i cretini saranno sempre pallidi
nelle loro assemblee
con la foga miope dei pollici
la volgarità di donne opache, eventuali.
Altre parole magre e superflue
nella noia fitta dei calendari
ed altri altari consacrati alla rabbia:
autobiografia di una nazione.
Voglio l’indirizzo di Dio
per domandare sabbia e vendetta
contro la ferocia dell’idiozia
contro la melassa ipocrita
voglio un diluvio definitivo
su queste intenzioni apocrife
sul mondo che abitammo
e sulla grammatica allagata
dalla nostra mancanza d’immaginazione.

 

*

 

Aria di rivoluzione, un’ultima canzone
poiché a grandi cose fatti non fummo, Maestro
e i violini in rima baciata suoneranno ancora e altrove.
Ti sei mai chiesto quale funzione hai?
Imparammo la pronuncia del tuo cielo
ma al primo piano dell’eternità non piove
e anneghiamo in una ridda di domande
tra la nuca labirinto
e il magistero di un basso continuo
per l’estasi dei santi, l’estro, il portento
mentre l’epoca livida e sciocca declina e dilaga
dove non servono palindromi
né bastano prologomeni ad ogni futura astrofisica
per dischiudere porte che non sai.
Parlami dell’esistenza di mondi lontanissimi, Maestro
portami lontano dalla pallida assemblea dei cretini
fuggiamo insieme dall’impero delle banalità
scioglimi l’ Artico, parla agli antichi bambini
agli splendidi diavoli
traduci per me la moltitudine
introducimi alla voragine del silenzio:
sbucceremo verità come mandarini
semi di tempo
a profumare le dita di vita
e il mondo fica cantato in siculo, in arabo
la gloria e la rinuncia degli anacoreti.
un panorma dispari ed esatto
al suono delle cavigliere del Kathakali.
La tua voce, i vostri oscuri misteri
i nostri sciocchi regali, Maestro
insegnami l’arte degli àuguri
dimmi come si indovinano le intenzioni delle creature con le ali.
Con le regole assegnate a questa parte di universo
invoca per me le sabbie ed i popoli dell’Oriente
che una dea complice ci sussuri un altro verso
lingua lumaca sulla terra riarsa dei secoli
e bava di cosmo
l’estasi della filosofia
una bruma di pellicola a sfocare ancora le intuizioni
quel fiore inabitabile e notturno sempre si schiude
e l’ovunque che da tanta parte dell’ultimo orizzonte
il guardo esclude
splendidi rumori
a trafiggere la notte dei profeti
gli archi fotografati del nostro sistema solare
e cosa resterà
dei nostri amori.

 

*

 

Amore, lingua scomparsa.
Indigeni, fuga, belva
Maori, pioggia, rumori
fa fuoco ai rami fradici
sciame di mezze sillabe.
Anima della nostra fiamma
in altre selve ieri
l’iride di ogni animale covava
luce, verità amare.

 

*

 

Poi spese la sua ultima moneta
e si lasciò mordere
dai cani randagi
del ricordo.

 

*        *        *

 

© Fotografia di Nicola Malaguti